Ci sono persone che hanno il gusto della provocazione, che amano andare contro, destabilizzare, urtare. Ne conosciamo tutti qualcuna, sappiamo che sono così e le accettiamo. Ma quando il “provocatore” di professione fa lo storico e pubblica libri, non per la ristretta cerchia degli accademici, ma per raggiungere il più ampio pubblico, l’effetto è dirompente.
Shlomo Sand insegna storia all’Università di Tel Aviv; un paio di anni fa il suo libro “The invention of the Jewish people” è stato nell’occhio del ciclone per mesi, ha venduto milioni di copie, suscitato dibattiti e polemiche ovunque. Sosteneva in buona sostanza che “gli ebrei discendono da una pletora di convertiti, provenienti dalle più varie nazioni del Medioriente e dell’Europa orientale”, contestando l’idea diffusa (un mito, per Sand) di un percorso unitario che dall’epoca biblica arriva senza soluzione di continuità fino ai giorni nostri.
Oggi Shlomo Sand torna in libreria con un nuovo libro destinato a far parlare e suscitare polemiche come e forse ancor più del precedente – al punto che “How and When I Stopped Being Jewish” (questo il titolo del libro), è aperto da Sand con un avvertimento: “Molti lettori vedranno la tesi centrale di questo libro come illegittima, persino esasperante; molti dei lettori che si definiscono ebrei secolari che si ostinano a definirsi ebrei a tutti gli effetti, mi vedranno come un vile, come uno che odia se stesso”.
Nell’ampia intervista rilasciata ad Haaretz, Sand ha spiegato i temi forti che stanno alla base della sua nuova fatica, a cominciare da quello di ‘identità ebraica’, di ‘chi è ebreo’ – che è in fondo l’argomento su cui Sand si arrovella da anni. In questo caso in particolare l’attenzione cade sugli ebrei cosiddetti secolarizzati, gli ebrei laici.
“La gente normalmente mi dice che io appartengo alla nazione di Albert Einstein, ma io Shlomo Sand, mi sento molto più vicino alla cultura israeliana di Arik Sharon, che non a quella tedesca di Einstein”.
Sand in sostanza si identifica non con la “nazione ebraica”, bensì con quella israeliana. “Puoi chiedermi se la cosa mi piaccia o meno, ma la accetto come una realtà”.
Nel suo libro Sand si chiede se esista una cultura ebraica secolare che tenga uniti gli ebrei non osservanti di tutto il mondo; tenta di capire se vi sia una componente ebraica che collega le filosofie di ebrei laici famosi come Marx Freud e Einstein. “Il Capitale di Marx, la teoria dell’inconscio o quella della relatività contribuiscono in qualche modo alla formazione e conservazione della cultura ebraica laica?” La risposta, secondo Sand è, no. “Forse che Arthur Koestler può considerarsi uno scrittore ebreo? e Serge Gainsbourg: ha mai scritto canzoni ebraiche anziché francesi?”
Anche il celebrato umorismo ebraico, alla fine, nella riflessione di Sand, si frantuma, “è un mito” dice. “L’umorismo di Woody Allen, di Sholem Aleichem attingono a quella cultura yiddish-slavo che è incomprensibile per un ebreo iracheno”, il cui umorismo, dice Sand, si basa su tutt’altri schemi e logiche.
Ma se le cose stanno così, allora cosa unisce gli ebrei laici di New York, a quelli di Parigi o Tel Aviv? Secondo Sand, nulla.
“Quelli che si definiscono ebrei laici non hanno modi di vita in comune; vivono la propria vita ciascuno secondo culture e linguaggi nazionali. “Se gli ebrei laici sparsi per il mondo, Israele compreso, non condividono fra loro religione, cultura, stili di vita, cosa giustifica la loro inclusione in una nazione esclusiva? Qualche feste e cerimonia? Herzl alla fine dell’800 festeggiava Hannuka con un albero di natale, e quando nacque suo figlio non lo fece circoncidere. Si può dire che fosse ebreo?”
Queste però sono solo le premesse di un ragionamento che arriva logicamente a conclusioni molto dure, difficili da accettare, che coinvolgono direttamente lo Stato di Israele e lo attaccano al cuore, senza nessuna pietà.
“Quanto più si approfondisce l’argomento, tanto più si arriva ad ammettere che non esiste una cultura unificante per chi non sia religioso. “Noi”, dice Sand rivolgendosi all’intervistatore di Haaretz, “abbiamo esperienze ed esistenze da israeliani; queste possono avere origini ebraiche e yiddish ma sono israeliane”.
“Israele pretende di essere lo stato ebraico, lo stato del popolo ebraico, ma poi non è in grado di definire chi sia un ebreo. Non c’è nessun criterio linguistico o culturale che possa contribuire alla definizione di chi sia ebreo, dal momento che i discendenti degli ebrei non hanno avuto mai una lingua o una cultura secolare in comune”. Ciò spiegherebbe per Sand, perché i legislatori israeliani possano far riferimento solo a criteri religiosi per determinare ciò che fonda l’identità ebraica: sono ebrei coloro che sono nati da madri ebree e quelli che si sottopongono a processo di conversione autorizzato”.
Non è difficile trovare contraddizioni in questo, dice Sand. “Lo stato degli ebrei non è del tutto ebraico. Essere un ebreo nello Stato di Israele non significa che si debbano osservare tutti i comandamenti e credere nel Dio ebraico. È possibile esplorare le credenze buddiste, come ha fatto Ben-Gurion, o mangiare gamberetti, come ha fatto Arik Sharon. Non è nemmeno necessario coprirsi il capo – la maggior parte dei leader israeliani e i generali dell’esercito non lo fanno”.
Per Sand oggi “essere ebreo in Israele significa innanzitutto e principalmente non essere arabo”. Nell’affermare ciò introduce anche una fastidiosa comparazione fra l’elevato status di vita degli ebrei in Israele con quello dei bianchi nell’America degli anni ’60, dei coloni francesi nell’Algeria pre-1962, dei bianchi e degli afrikaner in Sudafrica fino al 1994, dei tedeschi ariani nella Germania degli anni ’30. Rifiuto invece categoricamente qualsiasi paragone con la Germania degli anni ’40”.
Questi paragoni, ma soprattutto il discorso sul rapporto fra arabi ed ebrei nell’Israele di oggi, l’attacco diretto alla politica odierna israeliana (ma anche alle politiche per la memoria della Shoah messe in atto in Israele e in Occidente), appaiono, dal discorso di Sand, quasi come l’obiettivo ultimo del libro, al punto che viene il dubbio che l’interessante riflessione iniziale sia solo un pretesto per arrivare a queste conclusioni.