Così i tedeschi impararono ad odiare gli ebrei

Libri

di Ester Moscati

Perché? Perché l’odio, perché la violenza, perché – nel migliore dei casi – l’indifferenza? Tutti noi, quando poco più che bambini iniziamo a confrontarci con “la notizia”, con l’idea di quello che il nostro popolo ha dovuto sopportare con la Shoah e lo sterminio di gran parte degli ebrei che vivevano in Europa alla metà del Novecento, tutti noi abbiamo sentito nel cuore e nella mente questo inevitabile interrogativo. Ma non è solo la domanda retorica di chi non si capacita di una assurda enormità. È la domanda che spinge decine di storici ad affrontare il tema della Shoah. Un bisogno di capire, di darsi una ragione. E questa ragione spesso sfugge, anche a chi è del mestiere. Si parla così di “follia nazista”, “Hitler era un pazzo”. Si tirano fuori persino risvolti esoterici, mistici. Si scomodano i rapporti personali difficili dei vertici del nazismo con i loro compagni ebrei. Ma ovviamente tutto questo non basta a spiegare “la misura” della Shoah. Non basta a mettere in moto e nutrire una macchina dello sterminio che ha cancellato milioni di uomini, donne e bambini dalla faccia della terra. Non basta, no. E allora la domanda perché? resta sospesa.

Il pregio del libro di Götz Aly, Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? è quello di ricostruire un passato, quello del popolo tedesco, della nazione germanica, e degli ebrei in mezzo a loro partendo da molto lontano, dalla radici della simbiosi ebraico-tedesca. Si scopre così che il “perché” può avere risposta, anzi ne ha diverse. E il fatto di dare risposta alla domanda fondamentale implica la capacità di dare nel contempo una “prospettiva”, una “visione” dell’oggi e del futuro che rende la lezione di Aly tutt’altro che sterile erudizione. Oggi che l’odio per il diverso, le pulsioni distruttive verso i nemici “di genere” continuano ad infettare le società, a livello planetario.

Ma partiamo da un dato:  nell’anno 1900, in Germania, gli studenti ebrei che conseguivano la maturità erano otto volte di piú dei loro compagni cristiani. E cento anni prima, il gap era ancora maggiore. “Sin dall’inizio del XIX secolo fu evidente che per gli studenti ebrei era più facile imparare a leggere, scrivere e far di conto, strumenti da allora in poi imprescindibili. Nel 1743 il quattordicenne Moses Mendelssohn sapeva leggere e scrivere, parlava yiddish, ebraico, aramaico e tedesco”. Solo nel 1900 le grandi città tedesche ebbero un liceo, mentre ovunque gli ebrei, almeno da 100 anni prima, avevano dato ai propri figli l’istruzione superiore, fondando scuole tecniche e umanistiche.

Se per i signori locali istruire i ragazzi cristiani era considerato un pericoloso veicolo di emancipazione e ribellione, dalle comunità ebraiche ogni sia pur cauto segno di libertà, ogni spazio di tolleranza, veniva colto e sfruttato per crescere dal punto di vista sociale, culturale ed economico. I tedeschi vedevano in tutto questo non solo un pericolo, una rivalità, ma soprattutto il segno di una “diversità”.

“Chi vuole capire l’antisemitismo della maggioranza tedesca deve anche parlare delle attitudini e del desiderio di cultura, della presenza di spirito e della rapida ascesa sociale di così tanti ebrei. Solo allora risulteranno evidenti sia il contrasto con la maggioranza dei tedeschi, nel complesso inerte e lenta ad accettare i cambiamenti, sia gli alibi dell’antisemitismo. Solo allora sarà possibile capire perché gli antisemiti erano persone rose dalla gelosia e dall’invidia”.

La tesi di Aly è che gli ebrei erano in Germania tutto ciò che i tedeschi non erano. Avevano tutto ciò che i popoli germanici desideravano da tempo: radici antiche, una lingua comune, tradizioni estese e condivise.

“L’insicurezza insita nel nazionalismo tedesco condusse tra il 1800 e il 1933 ai noti eccessi di isterica millanteria”, scrive Aly. L’insicurezza è quella di coloro che degli ideali della rivoluzione francese e del secolo dei Lumi colsero l’aspetto dell’uguaglianza come un comodo nido, dove sparire come individui. Un popolo che non volle assumersi il rischio della libertà individuale, per la quale si sentiva inadeguato. Ed è per la diffusione massiccia e la profondità di questi sentimenti “tedeschi” che li ritroviamo declinati con poche varianti sia nei democratici, sia nei conservatori. Ciascuno a suo modo costruì “buone ragioni” per odiare gli ebrei.

“Solo un popolo di servi può provare piacere nello schiavizzare una minoranza”, scriveva nel 1831 Gabriel Riesser, politico tedesco pioniere dell’idea dell’emancipazione ebraica. E lo scriveva perché da ogni parte si levavano voci favorevoli alla discriminazione degli ebrei, a contenerne le libertà e l’ascesa sociale, ad impedirne l’accesso all’insegnamento nelle cattedre universitarie e alla carriera militare.

E fu sotto la Repubblica di Weimar, l’ultima luce democratica prima dell’avvento di Hitler, che fu istituita nel 1923 presso l’Università di Monaco la prima cattedra tedesca di Igiene razziale e nel 1927 l’Istituto berlinese di antropologia, dove lavorò Josef Mengele. Fu lì che i pregiudizi antisemiti si ammantarono di validità scientifica, ben prima dell’avvento della “follia nazista”.

Fu lì che gli ebrei, sotto l’egida di una prestigiosa università e all’ombra della Repubblica, si videro descrivere come una “stirpe bastarda, totalmente avulsa dal contesto europeo, caratterizzati dalla sorprendente capacità di entrare nella mente degli altri uomini e guidarli secondo il loro volere”.

“In Germania gli ebrei non avevano a che fare con un solo nemico, ma con cinque diversi correnti antiebraiche animate da altrettante motivazioni e dunque contrarie all’emancipazione: in primo luogo con l’antico pregiudizio religioso; poi con la paura del progresso che caratterizzava i ceti tradizionali; terzo, con la borghesia avida di protezioni statali invece che di libertà; quarto con l’odio per lo straniero dei nazionalrivoluzionari tedeschi, che legavano il concetto di popolo all’idea di una religione, di una storia e di una lingua comune; infine con i romantici tedeschi e cristiani di idee riformatrici”. Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? Ecco perché. L’antisemitismo divenne patrimonio comune dei tedeschi, un collante formidabile. Come avrebbero potuto salvarsi gli ebrei?

Le premesse erano gettate da secoli, la modernità pseudo-scientifica dava il suo imprimatur all’odio e alla discriminazione, le masse non aspettavano altro. Soprattutto quando la dittatura tolse al popolo la responsabilità dei propri sentimenti antisemiti e li impose addirittura, con gli annessi vantaggi della distribuzione dei beni sequestrati, dei posti di lavoro che si liberavano a favore dei tedeschi puri.

“L’antisemitismo elevato nel 1933 a scopo dello Stato affrancò il tedesco dalla vergogna e dalla responsabilità”. L’invidia sociale, protetta dalla legge, poteva a quel punto bearsi dell’umiliazione dell’ebreo, della sua persecuzione, spoliazione, della violenza che in modo sempre più sistematico iniziò a colpirlo.

 

 

Götz Aly, Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? Uguaglianza, invidia e odio razziale (1800-1933), traduzione di Valentina Tortelli, Einaudi Storia, pp. XX – 284, € 32,00. Lo storico Götz Aly (Heidelberg 1947) insegna al Fritz Bauer Institut presso l’Università di Francoforte. Giornalista tra i piú noti, ha pubblicato numerosi studi sul nazionalsocialismo e sullo sterminio ebraico. Per Einaudi ha pubblicato Lo stato sociale di Hitler (2007) e Perché i tedeschi? Perché gli ebrei? (2013).