di Fiona Diwan
E poi Beirut, Sao Paulo, Tel Aviv… In un appassionato memoir, Claudine Chayo racconta il travaglio di una giovane donna che è anche l’epopea di una generazione, tra identità ebraica, lealtà verso le proprie origini famigliari e religiose, l’urgenza di ascoltare la propria voce interiore. Tra fedeltà e tradimento
Il dolore del rifiuto. L’essere nata femmina, la quarta, e non quel figlio maschio tanto atteso che non arriva, dopo tre bambine. Sentirsi non accettati e così covare il seme della ribellione. L’appassionato e dolente romanzo-memoir di Claudine Chayo, milanese, nata in Siria, prende le mosse in una famiglia della buona borghesia ebraica di Aleppo estremamente ortodossa e conservatrice che in fuga dal Medio Oriente in subbuglio arriva a Milano per costruire una nuova vita. Un ordine patriarcale che va in frantumi a contatto con l’Italia e il clima culturale degli anni Sessanta, sconvolgendo equilibri e tradizioni millenarie.
Sotto forma di lettera postuma, una alla madre e una al padre, Chayo ci narra della fragilità di una donna, sua mamma, da cui non ci si sente né amati né capiti, una madre triste e punitiva, dalle sopracciglia sempre aggrottate, “la cui espressione preferita era c’est honteux, vergogna: vergogna a parlare a voce alta, vergogna a cantare, vergogna a ballare, a ridere, a vivere…
E poi c’è il disamore e l’abbandono di un padre intelligente ma troppo bello e dongiovanni per voler restare ingabbiato nel ruolo di marito, genero di un suocero autoritario e austero, padre di cinque figlie femmine.
La profonda inimicizia tra i due clan – paterno e materno -, l’odio tra i due genitori scava una ferita non rimarginabile nelle relazioni domestiche e nell’anima delle figlie. Soprattutto, c’è la solitudine di crescere non visti e non ascoltati, gli adulti tutti presi dalle loro beghe, vendette, dolori. Come sciogliere allora legami tossici ma che si vogliono sacri e indissolubili, come far respirare gli affetti senza che ci soffochino, una scia di dolore e malinconia che ci accompagna tutta la vita senza che le lacrime riescano a estinguerla?
In questo memoir c’è davvero tanto: il corto circuito tra una modernità incalzante e le tradizioni famigliari mediorientali, la collisione tra l’identità ebraica e le sirene di un mondo pieno di promesse; c’è il destino di una ragazza sefardita che non ne vuol sapere di cercare “un buon marito e sposarsi”; c’è una donna che, per la prima volta nel proprio lignaggio femminile, si iscrive all’Università e si laurea in Filosofia rivendicando, non senza lacerazione, il bisogno di seguire una voce e una strada non decisi in anticipo.
Siamo nel 1958: poi arriveranno gli anni Sessanta e Settanta, il subbuglio di una generazione di deracinèes, sradicati e contestatori. Ma oggi, dice Chayo, placati i conflitti e le incomprensioni, com’è dolce ritrovare la nostalgia di un mondo antico e ancestrale, perduto per sempre, annegato negli oceani della Storia e dissolto dall’incalzare dei mutamenti sociali! Emerge allora questo bisogno di riconciliarsi con la propria appartenenza, di raccontare per ricordare, di fare finalmente pace, perdonare se stessi e rendere omaggio ai propri genitori malgrado tutte le durezze e gli errori commessi. Con soave leggerezza, Chayo si racconta in questo appassionato memoir: narra il travaglio di una giovane donna che è anche l’epopea di una generazione, tra identità ebraica, fedeltà alle proprie origini famigliari e religiose, e l’urgenza di aprirsi al mondo per ascoltare la propria voce.
Tra fedeltà e tradimento. Perché, a volte, amare vuol dire anche… essere infedeli.
Claudine Chayo,
Io, l’infedele, Albatros, pp. 116, 13,90 euro