di Esterina Dana
Nessun ravvedimento. Praticamente impunito. Lo scandalo di Gaetano Azzariti: magistrato, direttore dell’Ufficio legislativo fascista, consigliere di Corte d’Appello, presidente di Cassazione, dopo l’emanazione delle Leggi razziali del 1938, che contribuì a redigere, divenne presidente del Tribunale della Razza. Dopo la guerra Palmiro Togliatti lo scelse per il Ministero di Grazia e Giustizia; contribuì a scrivere l’amnistia per i reati fascisti. E non pagò mai pegno. Una clamorosa vicenda ricostruita in un libro da Massimiliano Boni
Gaetano Azzariti, chi era costui? Perché raccontarne la storia?
Sono domande a cui risponde Massimiliano Boni, ne In questi tempi di fervore e di gloria edito da Bollati Boringhieri (2022). Una biografia, ma anche un documentatissimo saggio storico, frutto della decennale convivenza documentale dell’autore con Gaetano Azzariti, legislatore d’eccezione, protagonista della storia giuridico-legislativa (e politica) italiana dal 1905 al 1961.
Figura paradigmatica di un’intera classe dirigente alla quale fu permesso impunemente di riciclarsi dopo il Fascismo, la sua storia illumina quella del nostro paese, il quale non ha mai fatto veramente i conti con il proprio passato. Boni ne indaga minuziosamente la vita alla ricerca dei “come” e dei “perché” di una carriera sempre all’apice: magistrato del Regno; Direttore dell’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia (1927-1949); Presidente del Tribunale della razza (1939-1942); Giudice costituzionale e Presidente della Corte costituzionale (1957).
Con tratto investigativo, scandaglia la sua vicenda esistenziale e professionale evidenziandone le zone d’ombra. Legislatore competente, “fedele a un’idea di supremazia dello Stato quale soggetto di diritto”, Azzariti traduce in legge le indicazioni dei Governi in essere: quello di Mussolini, quello del governo Badoglio, quello repubblicano. Dirigente dell’Ufficio legislativo del Ministero di Grazia e Giustizia dal 1927, lo fa a prescindere dal valore civile e morale delle sue azioni con uno zelo che è più di una semplice adesione, come dimostrano la scelta di iscriversi al partito fascista e di partecipare alla campagna contro gli ebrei.
Artefice dal 1927 del processo di fascistizzazione dello Stato, nel 1938 è ingaggiato nella stesura, correzione e revisione di tutti i provvedimenti legislativi razzisti, dal 1939 guida il Tribunale della razza e contemporaneamente partecipa al rinnovo del Codice civile, corredandolo di inserti antisemiti. Il Tribunale della razza, deputato ad accertare “la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile” (L. 1024/1939-XVII) e dichiarare “ariano” i pochi che ne facevano richiesta, è uno strumento di estorsione e corruzione impunite. Un discorso pronunciato “extra moenia” il 28 marzo 1942 conferma Azzariti giurista militante: in esso condanna la libertà e l’uguaglianza e sostiene che “la diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali, dai quali possano derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente».
Garanzia di continuità legislativa e burocratica, nel 1943 è ministro di Grazia e Giustizia nel Governo Badoglio per 45 giorni. Durante la Repubblica di Salò resta “latitante”, pur mantenendo i contatti con le autorità repubblichine che, incredibilmente, non lo considerano un traditore. Gli inserti razzisti, nonché la legge 1024 che aveva istituito il Tribunale della razza, sono eliminati su richiesta degli Alleati, ma diventano attuativi a partire dal 1944; le scorie restano per decenni. A guerra conclusa riesce ad evitare l’epurazione, nonostante le denunce di connivenza con il Regime e le manifestazioni di apologia fascista, difendendo il suo contribuito presso il Tribunale della Razza, a suo dire volto ad attutire la dimensione persecutoria delle leggi razziste. Nel nuovo governo (1945), su incarico di Palmiro Togliatti, Ministro di Grazia e Giustizia, contribuisce a scrivere il testo dell’amnistia per i reati fascisti concessa con decreto presidenziale: un paradossale conflitto di interessi frutto della complicità dei magistrati e della debolezza di uno Stato stremato dalla guerra.
Il 27 marzo 1947 giura fedeltà alla Repubblica. Dal 1949 al 1955 svolge intensa attività pubblicistica, focalizzando le ricerche sulla Corte costituzionale, riaffermando la sua idea del diritto come “tecnica” di governo e del giurista come custode delle regole. La sua capacità di mantenere buone relazioni con gli apparati dello Stato, gli procura nel 1956 la nomina di giudice costituzionale e vice presidente della Corte costituzionale. In tale veste ne firma la prima sentenza, che sancisce l’autorità giurisdizionale della Corte anche sulle norme anteriori al 1948, segnando così “la vittoria degli ideali antifascisti”. L’anno dopo diventa presidente della Corte costituzionale, una delle prime cinque cariche della Repubblica.
Dimenticato il suo passato e quello di molti altri, come lui compromessi con il Fascismo, rimane in carica fino alla morte, sopraggiunta il 5 gennaio 1961: aveva 80 anni. Commemorato, ammirato, celebrato, nel 1970 Napoli gli intitola una strada, ma nel 2015 il suo nome viene rimosso e sostituito con quello di Luciana Pacifici, morta nel 1944 a 8 mesi in un vagone piombato diretto ad Auschwitz. Il busto di Azzariti, che campeggiava al palazzo della Consulta, è da tempo “in restauro” in attesa di giudizio.
Massimiliano Boni, In questi tempi di fervore e di gloria. Vita di Gaetano Azzariti, magistrato senza toga, capo del Tribunale della razza, presidente della Corte costituzionale, Bollati Boringhieri, pp. 352, euro 26,00.