di Marina Gersony
Sono opportuni i massicci interventi pubblici a sostegno di un’economia sempre più appannata e in declino? Ci sono, e quali sono, i rimedi a una tendenza che si può far risalire alla crisi finanziaria del 2007-2008? Come uscire dall’impasse? E ancora: qual è la visione economica dell’ebraismo riguardo a meritocrazia, etica del lavoro, individualismo e liberismo?
Globalizzazione, mercati finanziari in fibrillazione, un crescente divario tra ricchi e poveri, nuovi scenari e rischi difficilmente prevedibili – ma soprattutto uno Stato sempre più invasivo che l’emergenza coronavirus ha rimesso al centro dell’attuale dibattito politico –, sono alcuni dei temi affrontati da Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro nel saggio Contro il sovranismo economico. Storia e guasti di statalismo, nazionalismo, dirigismo, protezionismo, unilateralismo, antiglobalismo (e qualche rimedio), long seller che già nel titolo e sottotitolo riassume contenuti di stretta attualità. (Editore Rizzoli, pp. 240, 18.00 euro). In breve, quello dei due autori è un viaggio competente nella galassia ideologica eterogenea degli «ismi», in quella che Zygmunt Bauman, con straordinaria e sempreverde intuizione, aveva coniato con l’eloquente termine di Liquid Modernity.
Abbiamo incontrato Alberto Saravalle per cercare di capire l’effetto tsunami della pandemia che ha messo in moto ovunque una gigantesca operazione di pubblicizzazione dell’economia. E per averne anche un punto di vista ebraico. Saravalle, avvocato, sposato con il soprano Madelyn Renée, due figli da un precedente matrimonio, è professore di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Padova e partner di Bonelli Erede – uno dei principali studi legali in Italia, che ha co-fondato e di cui è stato presidente. Ha ricoperto diverse cariche istituzionali e da ultimo è stato consigliere giuridico del Ministro per gli Affari Europei.
«Con questo libro Stagnaro e io abbiamo cercato di capire il significato profondo di termini come nazionalismo, protezionismo, sovranismo e così via, entrati ormai nel lessico abituale della stampa, della comunicazione politica e della saggistica. Questo è stato il punto di partenza: ci pareva che questi fenomeni stessero travalicando le tradizionali barriere politiche. Basta vedere l’ex governo giallo-verde nel quale due partiti, che sulla carta avevano ben pochi punti in comune, si trovavano in pieno accordo sulla politica economica, sostanzialmente fondata sullo statalismo. Oggi sono tutti contenti di avere più Stato. Chi più chi meno, tutti i partiti cercano esercitare la propria influenza sull’economia, controllando e condizionando direttamente e indirettamente le imprese».
Non si può tuttavia leggere l’impegno politico e civile del professore senza tener conto del suo background culturale e dalla sua identità ebraica alla quale si sente profondamente legato; quell’ebraismo per cui la responsabilità individuale è prioritaria per correggere i disequilibri del mondo secondo il principio per cui ogni individuo è coinvolto nel destino altrui e in qualche modo lo determina.
Discendente da illustri rabbini e studiosi di Talmud a Venezia, per Saravalle concetti come «mitzvah», «bene collettivo», «umanità» e «passione etica» sono i pilastri dell’agire e del pensare quotidiano. To give back, è il suo motto, cioè restituire alla collettività quanto si è avuto dalla vita. «Come uomo e come cittadino, sento il bisogno di offrire un contributo esperto per costruire un’Italia meritocratica, civile, vitale, orgogliosa di se stessa. È questa la mia urgenza. Bisogna crederci, perché la meritocrazia e la certezza del diritto servono al Paese, e a tutti».
Una bella sfida per un’Italia che aspetta solo di essere guidata e ricollocata in una dimensione globale ed europea, tra riforme necessarie, rivendicazioni identitarie e sistemi economici costretti ad adattarsi a profonde e radicali trasformazioni e con cui si dovrà confrontare anche una volta terminata l’emergenza sanitaria.
«Il golden power (i poteri speciali con cui il governo può intervenire nelle operazioni societarie nei settori strategici) sta diventando uno strumento attraverso il quale il controllo dello Stato è diventato pervasivo in tutti i settori. Di fatto abbiamo una preminenza della politica sul business, un altro effetto deleterio di questa pandemia statalista». Certo, spiega il professore, non è che questi fenomeni siano nuovi: «quasi tutti gli “ismi” che descriviamo nel libro hanno una lunga storia, sono vecchi e sono sempre stati fallimentari. La novità è che oggi sono tutti contestualmente presenti e in misura esorbitante. Purtroppo non si tratta di una situazione passeggera: basta vedere come il protezionismo negli Stati Uniti abbia contagiato anche la nuova amministrazione». In breve, sintetizza Saravalle, nei primi giorni alla Casa Bianca, Biden ha firmato molti ordini esecutivi per rovesciare alcune tra le più controverse decisioni di Donald Trump, «dall’immigrazione al clima, ma ci sono alcuni settori nei quali dobbiamo attenderci continuità, come nella politica estera e commerciale. In quest’ultima, in particolare, Biden ha mostrato di condividere la politica protezionistica di Trump. Il presidente ha infatti messo subito mano alle norme sul “Buy American”, che obbligano le amministrazioni pubbliche a dare la precedenza ai prodotti americani negli appalti, in linea con quanto fatto dal suo predecessore. Siamo dunque ben lontani dal ritorno alle politiche commerciali “liberiste” e multilaterali degli anni Novanta».
E l’Europa? E l’Italia? «L’Ue farebbe bene ad alzare la voce in tutte le sedi, ma non avrebbe alcun vantaggio dal mettere in atto delle ritorsioni. L’Italia (che quest’anno ha la presidenza del G20) può fare molto per avviare una nuova fase di multilateralismo non più segnata ovunque da restrizioni più o meno occulte al commercio, culminate nella pericolosa deriva del cosiddetto “nazionalismo vaccinale”, e da una crescente conflittualità tra i principali attori sulla scena (Cina e Stati Uniti in primis)».
Quali sono allora i rimedi per “riassestare” una realtà così complessa e caotica? «Fino a quando non ci sarà una rivoluzione culturale, questo fenomeno è destinato a restare. Basta guardarsi intorno e troviamo ovunque ostacoli al commercio internazionale, protezione dei campioni nazionali, idiosincrasia nei confronti della concorrenza. Preoccupano soprattutto la diffusione dei movimenti populisti, antieuropeisti e nazionalisti. La storia ci insegna che al nazionalismo si accompagnano spesso, anche se non sempre, politiche illiberali, pulsioni razziste, istanze xenofobe e tendenza militariste che hanno trascinato l’Europa e il mondo intero in guerre e tragedie, temi ovviamente molto importanti che toccano profondamente la sensibilità di noi ebrei». Ormai – osserva il professore – perfino l’Unione europea si è fatta condizionare dalla retorica prevalente e rivendica apertamente la propria sovranità tecnologica e strategica.
A proposito di ebrei e di ebraismo, quali sono gli insegnamenti che ha dato ai suoi figli? «Sono molto legato alle tradizioni della mia famiglia. Il fatto di esser ebreo mi ha dato la consapevolezza di far parte di una storia secolare e di essere un anello di trasmissione tra quello che è stato e quello che sarà. Ai miei figli ho impartito un’educazione ebraica per continuare la tradizione. Per un certo periodo ho anche cercato di ripercorrere la strada dei miei antenati, studiando il Talmud, con un amico rabbino, e mi sono reso conto che con lui giungevo alle stesse conclusioni cui pervenivo con il mio psicanalista. E, forse, grazie al Talmud vedevo meglio e più lontano…».