di David Zebuloni
Il nuovo libro è dedicato al rapporto con l’identità ebraica. Mosaico lo ha intervistato
Dopo aver condiviso la propria storia di figlio della Shoah nell’opera Il profumo di mio padre, Emanuele Fiano torna nelle librerie con un saggio nel quale racconta la sua esperienza di uomo e di ebreo. Un titolo EBREO che ha suscitato anche in chi scrive qui, emozioni contrastanti. Cinque lettere lo compongono, scritte a caratteri cubitali, in stampatello maiuscolo, con un punto finale che pare più un punto esclamativo per la forza che trasmette. Un titolo inequivocabile che quasi non ti permette di distogliere lo sguardo.
«Fino a poco prima della pubblicazione, ero in dubbio se dare al libro un altro titolo – racconta Emanuele Fiano a Bet Magazine. – Ho pensato di chiamarlo Non basta essere ebrei, poiché ci tenevo a spiegare che a me l’ebraismo ha sempre trasmesso l’impulso di avere un ruolo civile nella società. Di aiutare gli altri. Poi ho optato per un altro titolo, composto da una sola parola. Essere ebrei, d’altronde, è una grande forza. Noi dobbiamo essere orgogliosi e avercelo scritto sempre in fronte, per la storia che ci portiamo dietro e per la vita che abbiamo ereditato dai nostri genitori. Quindi il titolo è grande, è una parola unica che non necessita aggettivi. L’ebreo è colui che ha oltrepassato la propria storia, seguendo la voce e cambiando il proprio destino. Ho voluto dire Ebreo e basta, perché questa è la mia fondamentale identità».
Sul significato più profondo della propria identità, l’autore spiega: «L’ebraismo ha un universo di significati. Nel mio libro ho cercato di delinearne alcune caratteristiche, partendo dalla Torà, nonostante io scriva da ebreo laico. La prima caratteristica, che ho voluto mettere in evidenza, del messaggio che io ho ricevuto dall’ebraismo è tratta dal primo episodio nel quale il Signore pone una domanda apparentemente inutile al primo protagonista della Torà: Adamo. Dopo aver mangiato dall’albero della conoscenza, Dio chiede a Adamo “dove sei?”, nonostante conoscesse già la risposta. Evidentemente questa è una domanda alla nostra coscienza. Dove siamo ora che conosciamo? L’ebraismo mette quindi, per la prima volta nella storia della civiltà, il senso del limite. Cioè la morale. Noi siamo uomini a cui è stata data la morale. Adamo deve chiedersi da solo: “Dove sono io? Dove mi sono messo di fronte alla conoscenza, ora che so cos’è il Bene e cos’è il Male?”. In quel momento, secondo me, incontriamo per la prima volta il libero arbitrio».
Ebraismo e Sionismo, un connubio vincente? Emanuele Fiano inaugura la sua opera con un capitolo che racconta la sua esperienza di ebreo nel Kibbutz, in Israele, quasi come a dire che Ebraismo e Sionismo siano legati da un rapporto indissolubile. «Io sono stato educato al sionismo», conferma l’autore. «La prima volta che venni in Israele con mio padre, giunto al fondo della scaletta dell’aereo lo vidi inginocchiarsi e baciare la terra. Disse che se Israele ci fosse stato, la sua mamma si sarebbe salvata. Io sono stato dunque educato ad una concezione salvifica di Israele, proprio perché il sionismo ha avuto un impulso derivante dall’antisemitismo, prima ancora della Shoah. Anche oggi, Israele è il principale centro dell’esistenza ebraica. Quando ci vado, mi sento sempre molto a casa. Dopodiché, Israele è anche uno Stato che ha una conduzione politica, quindi vi è un’autonomia di pensiero e non significa che io condivida sempre le decisioni del governo israeliano».
Citando il brano di Lech Lechà, ovvero quello in cui Dio chiede ad Abramo di lasciare la propria terra verso ignota destinazione, domando all’autore se sia questa la condanna del popolo ebraico: essere sempre in viaggio. «Questa è la nostra ricchezza, non la nostra condanna, -puntualizza Fiano -. Sulla copertina del libro c’è una fotografia che ritrae Ben Gurion a testa in giù. A me ha sempre molto colpito questa immagine, perché mi fa venire in mente che i più grandi ebrei della storia sono sempre stati capaci di guardare le cose da un punto di vista diverso. Essere sempre in viaggio significa dunque non fermarsi mai con l’intelligenza. Anche il nostro Talmud è composto da un testo centrale circondato dai commenti, perché non si smette mai di studiare e commentare. Lo dico con grande umiltà, ma penso che questa sia una delle caratteristiche della laicità, che permette la libertà dell’interpretazione. O, perlomeno, della contraddizione».
Sentirsi diversi, anche a casa
In EBREO, c’è una frase che colpisce. “Questo è il racconto di un viaggio sempre in corso che mi porta a sentirmi così orgogliosamente ebreo e a volte dolorosamente ebreo”, scrive l’autore. Gli domando dunque il motivo di tanto orgoglio e di tanto dolore. «Orgogliosamente perché essere ebrei è una ricchezza. È un orgoglio per me poter spiegare agli altri il nostro patrimonio culturale, etico e tradizionale, – spiega-. Dolorosamente, invece, poiché non è sempre facile essere ebrei. Non lo è per me forse per la mia attività politica, quando a volte non riesco a spiegare il mio sentire, oppure quando non riesco a far convivere i miei sentimenti di italiano con altri argomenti che riguardano Israele e la difesa del suo diritto all’esistenza. Quando sono entrato in politica, nutrivo nei confronti di questo paese, l’Italia, una certa dose di rabbia, sentivo di avere un credito per ciò che era stato fatto alla mia famiglia. Sentivo di non essere capito, di essere diverso».
Ma cosa significa essere diversi, o perlomeno “sentirsi” diversi? Dopo una breve pausa e un lungo respiro, Fiano risponde con semplicità: «Essere diversi significa avere sempre le antenne molto più alte degli altri. È difficile, d’altronde, che un ebreo sia indifferente. Noi percepiamo spesso dei pericoli e delle ingiustizie prima degli altri, perché abbiamo un’esperienza segnata sulla pelle delle nostre famiglie. Sulla pelle dei nostri padri cacciati da Tripoli, dalla Persia o da Firenze, come mio padre. C’è sempre una percezione della fragilità della propria condizione, quando si è ebrei. Talvolta, anche a livello inconscio. Diversità è dunque essere minoranza. È volersi integrare, senza volersi assimilare. E questa è una cosa molto difficile, sia da spiegare sia da vivere. Io ho provato a farlo attraverso questo libro».