Eroi a quattro zampe: i cani e i gatti della Shoah

Libri

di Viviana Kasam
Non è facile parlare ai ragazzi della Shoah, senza traumatizzarli ma facendo loro comprendere la portata del dramma.

Un utile strumento può essere il delizioso libro di Susan Bulanda “Amici per sempre: storie di deportati della Shoah e dei fedeli cani che non hanno smesso di aspettarli” (Piemme).

Susan Bulanda è una specialista del comportamento animale, addestratrice e docente alla Kutztown University in Pennsylvania. “Leggendo il diario di Anna Frank -racconta- mi ha colpita il fatto che quelle famiglie fossero disposte a rischiare la vita pur di portare con sé, nei nascondigli, i loro animali. Dovevano dividere il cibo con il gatto e offrigli una cassetta con la sabbia. Dovevano tenerlo tranquillo durante il giorno. E così mi sono domandata cosa ne fosse stato di tutti gli altri animali delle vittime dell’Olocausto”.

Bulanda mette annunci su giornali e riviste per cercare testimonianze. Incontra alcuni sopravvissuti dell’Olocausto, molti dei quali erano bambini all’epoca. E scopre quanto sono contenti di parlare dei loro animali, è una sorta di liberazione perché quelle separazioni brutali sono sempre rimaste una piaga nel loro cuore. Una piaga difficilmente confessabile, di fronte alla tragedia della Shoah.

Nel libro le testimonianze dei sopravvissuti, i ricordi nostalgici dei loro amati animali, strappati ai nuclei famigliari senza che ne capissero il perché, si intrecciano con brevi ma precise note storiche sulle persecuzioni nei Paesi di origine dei protagonisti del libro: Ungheria, Polonia, Belgio, Francia, Romania, Jugoslavia.

Scrive Bulanda: “Mentre l’Europa, uno Stato dopo l’altro, soccombeva alle forze naziste, non furono solo le vite di uomini e donne a venire distrutte. Moltissimi animali domestici, cani e gatti soprattutto, fino a quel momento compagni amati e fedeli dei loro amici umani, soffrirono le conseguenze delle deportazioni. Impauriti, soli, incapaci di accettare l’abbandono, eppure consapevoli che qualcosa di terribile stava accadendo ai membri della famiglia, gli animali sono stati le vittime collaterali della Shoah”.

Le testimonianze raccolte da Bulanda, e firmate dai sopravvissuti stessi, sono dolci, tenere, tristi, spesso drammatiche, e fanno intuire gli orrori della Shoah parlando di emozioni che i  bambini  comprendono (ma anche gli adulti che, come la sottoscritta, hanno rapporti di grande affetto e complicità con i loro animali domestici, membri a tutto tondo della famiglia).

Sono storie, ahimè, per la maggior parte senza un lieto fine. I cani, che non possono seguire i loro padroni nei ghetti, nei nascondigli e tanto meno nei campi di concentramento, vagano disperati, denutriti, cercando di tornare nelle case ormai vuote, rifiutando di spostarsi dalla soglia del portone di ingresso, i più fortunati soppressi prima di morire di fame o, peggio, cucinati da chi a sua volta deve scegliere tra la sopravvivenza propria o quella dell’animale. “In molti, per evitare che i loro cani venissero rubati e mangiati, o piuttosto che mangiarli loro stessi, preferivano ucciderli e seppellirli dove nessuno poteva trovarne il corpo” racconta Joyce Clemens, diventata a sua volta addestratrice di cani, soprattutto per assistenza psichiatrica ai veterani di guerra. Fu la sorte del suo spaniel Brady, in Olanda nell’inverno del ’44, quello che dagli olandesi viene ricordato come l’Inverno della Fame. La gente si nutriva di bulbi di tulipani e non c’era nemmeno più il latte perché le mucche morivano di denutrizione.  E così il padre di Joyce decise di sopprimere l’adorato compagno di giochi dei figli per evitargli una fine peggiore.

Ci sono cani che si lasciarono morire per il dolore. E’ il caso di Hanni von Rapttenbach, un magnifico e nobile esemplare di pastore tedesco, che il padre di Kurt Moses, il sopravvissuto che racconta la storia, riuscì ad affidare al capo della polizia mentre la famiglia veniva deportata. Ai tedeschi piacevano i cani da lavoro, soprattutto quelli di razza. Mentre Kurt inizia il suo tragico viaggio nei campi di concentramento, Westerbork, Theresienstad e poi Auschwitz, dove passa le selezioni del famigerato dottor Mengele, Hanni  non si rassegna, continua a scappare dal comando militare, rifiuta il cibo, finché viene trovato accasciato senza viti sui gradini della casa dove ha vissuto felice. Morto di dolore.

Ma ci sono anche casi più fortunati. Come quello di Nicolas, un bellissimo esemplare di bulldog francese, che riesce ad aver salva la vita perché il Kennel Club di Marsiglia decise che era importante salvare i cani di razza, affinché sopravvivessero alla guerra. Yvonne Rothschild Krug nell’inverno del 1940, quando i tedeschi invasero la Francia e il cibo cominciò a scarseggiare, lo portò alla gara di selezione, e vinse un tagliando per crocchette pari al valore di cinque sterline al mese. La salvezza dalla denutrizione. Prima di essere deportata ad Auschwitz, Yvonne riuscì ad affidare Nicolas a un soldato tedesco. Grazie alla sua prestanza, il cane fu adottato dalla divisione, fino a quando alla fine della guerra i soldati furono costretti a ritirarsi e abbandonarono Nicolas a 160 chilometri da casa. Fu trovato da una famiglia di Nizza, che riuscì a rintracciare la proprietaria perché il cane, in tutti  quegli anni, aveva conservato la sua traghetta. Yvonne si trasferì poi in America, a Hollywood, dove Nicolas divenne una vera e propria celebrità. Fotografato e intervistato (sic!) sulle prime pagine dei giornali, come prigioniero di guerra, visse felicemente gli ultimi anni della sua vita, insieme alla sua proprietaria che non aveva mai perso la speranza di ritrovarlo.

Tra le tante storie, tutte commoventi, mi ha particolarmente emozionata quella di Lya Galpern, che viveva un’infanzia felice nello shtetl di Fãlešti in  Romania, allietata dal rapporto con i suoi tre cani, Jannet, la mamma, e i  suoi due cuccioli, Marcela e Cheelly. Lya assiste all’uccisione a sangue freddo di Jannet da parte di un soldato tedesco mentre viene deportata con la famiglia verso i  ghetti dell’Ucraina. Allettata dalla promessa di emigrare in Palestina, finisce nei sotterranei di un ospedale di Balta, e viene utilizzata come donatrice di sangue insieme ad altri ragazzini, condannati a morire dissanguati. Nello stato di trance indotto dalla debolezza per i continui prelievi “pensavo di stringere Jannet, Marcela e Cheelly tra le braccia”. Seppellita viva sotto la catasta dei cadaveri dei suoi sfortunati compagni di sventura, sopravvive immaginando di essere circondata dai suoi animali. “Ricordavo la loro pelliccia morbida, quando li abbracciavo e li baciavo. Sentivo i baci caldi che mi davano sulle mani e sul mento. Pensavo quando correvamo nel ruscello accanto al mulino.” Tornata a casa dopo tre anni e mezzo Lya ritrova, acciambellato in un angolo, il suo Cheelly. “Aveva  un aspetto orribile, scheletrico,  sporco  e inselvatichito”. Ma quando, dopo avergli fatto un bagno e averlo nutrito, Lya lo mette a dormire accanto a sé, nel suo letto, “lo sentii emettere un lungo, profondo sospiro come a dire: ora posso di nuovo dormire in pace”.

A chi si chiede se gli animali hanno una coscienza, questo libro dà, implicitamente, una risposta incontrovertibile.

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Avete delle storie su animali domestici durante la Shoah e volete raccontarcele? Mandatele a bollettino@com-ebraicamilano.it e le pubblicheremo!