Giuseppe Laras, Storie del pensiero ebraico nelletà antica, Giuntina, Firenze. 2006. pp.199, 13
Massimo Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Morcelliana, Brescia, 2003, pp. 596, 36,50
Mauro Zonta, La filosofia ebraica medievale Storia e testi, Laterza, Roma- Bari, 2002, pp. 281, 24,50
Ha senso in generale parlare di “filosofia ebraica”? Naturalmente sì, se ci riferiamo a una tradizione che si è definita chiaramente in questo modo e va indietro fino a Filone d’Alessandria, e passando per Maimonide, Spinoza e Mendelsohn arriva ai grandi nomi del Novecento, da Cohen a Rosenzweig a Lévinas: una filosofia non solo fatta da ebrei, ma che si vuole ebraica nei contenuti e nello scopo.
Nondimeno esiste una certa difficoltà nel parlare di “filosofia ebraica”, e forse vale la pena di discutere di questo problema. Esso va posto in due direzioni: può esistere una filosofia che sia ebraica invece che – diciamo – protestante o cattolica, italiana o americana? Ed esiste un pensiero davvero ebraico che possa dirsi filosofico? L’idea di una filosofia ebraica presenta almeno questo problema: che la filosofia si presenta sempre, per sua natura, universale; che cioè essa pretende che la sua validità non dipenda da chi la pensa o da chi la legge, ma che investa tutti, essendo fondata sulla pura ragione. Una filosofia che volesse essere solo ebraica rischierebbe dunque di essere una filosofia minore, parziale, locale, imperfetta. E’ vero che nella cultura ermeneutica che parte da Nietzsche si insiste molto sul carattere concreto, situato, dei soggetti dei discorsi teorici, per si sono proposti pensieri “al femminile”, “neri”, sudamericani, “proletari” e così via, per tener conto dei limiti, degli interessi, della prospettiva di chi parla; ma certamente i filosofi ebraici non hanno inteso pensare secondo quest’ottica limitata.
Una seconda ragione sta nel fatto che la filosofia non può partire da Dio e dalla Rivelazione, ma può solo eventualmente arrivarci. Deve iniziare dal mondo, dallesperienza, dalla logica, per poi eventualmente provare a dimostrare lesistenza di Dio, la creazione, la validità della Rivelazione spesso senza riuscirci o negandole. La distinzione che Platone propone con forza fra filosofia e mito greco classico (parlando di “antica inimicizia” fra filosofi e poeti) e quella che la Scolastica propone fra filosofia e teologia vanno esattamente in questo senso.
Proprio per questa ragione, bisogna chiedersi se ci può essere un pensiero ebraico davvero filosofico, cioè che non parta dalla Torah e dalla tradizione di commento che la circonda. La filosofia si pone come pensiero “senza premesse”, che non parte da un testo rivelato ma solo dalla retta ragione e quindi sembrerebbe incompatibile con l’ebraismo. E’ un tema che fu sollevato già molto pesantemente contro Maimonide poco dopo la sua morte, con una discussione violentissima che scosse (anche con scomuniche e gravi violenze verbali) l’ambiente ebraico sefardita (soprattutto provenzale e spagnolo) intorno al XIII secolo. Dell’incompatibilità fra studi ebraici e sapere profano, ma soprattutto filosofico, si trova traccia del resto anche nel Talmud e dopo il Medioevo sono rarissime le eccezioni di coloro che prima dell’Ottocento si sono rivolti dal mondo ebraico alla filosofia: citiamo Spinoza (coi problemi che tutti sanno), Mendelsohn, accusato a sua volta da molti ambienti ebraici di andare verso l’assimilazione.
Poi però, con l’emancipazione, la fioritura di filosofi ebrei (o di origini ebraiche, la distinzione biografica e soprattutto quella culturale spesso non è chiara) fu grande, anche a dispetto della discriminazione che nelle università persistette a lungo nellOttocento e poi delle persecuzioni nazifasciste. E se alcuni di questi filosofi, come Edmund Husserl, per fare un nome per tutti, furono semplicemente segnati e poi magari perseguitati per le loro origini ebraiche, ma completamente integrati nel loro pensiero alla cultura europea, altri fecero del loro ebraismo un tema specificamente filosofico, a partire almeno da Rosenzweig e da Buber.
Un elenco molto ampio un tentativo di classificazione e una serie di brevi (ma chiare e assai ben fatte) esposizioni del loro pensiero si trova in un volume ormai vecchio di qualche anno (è del 2003) ma prezioso per chiunque voglia informarsi sul panorama ricchissimo della filosofia ebraica dellultimo secolo: Il pensiero ebraico contemporaneo pubblicato da Morcelliana. Ne è autore Massimo Giuliani, docente alluniversità di Trento. Per risalire più indietro sono utili due altri libri, quello di Rav Laras che illustra la storia del pensiero ebraico nelletà antica cioè fra gli ultimi libri del canone biblico e il pensiero talmudico (Giuntina 2006) e quello di Mauro Zonta che invece affronta La filosofia ebraica medievale dai tempi di Saadia Gaon (decimo secolo) fino al 1500 circa.
E impossibile naturalmente tentare qui una sintesi di un percorso così lungo e accidentato, pieno di protagonisti di grandissimo rilievo. E chiaro che non esistono contenuti esclusivi della filosofia ebraica, che si pone di fronte tutti i problemi filosofici fondamentali e spesso non accetta un confine preciso rispetto alla teologia e allermeneutica. E però i tre libri che ho citato, coprendo buona parte del percorso del pensiero ebraico (anche se ne sono esclusi i secoli che vanno dal Cinquecento allOttocento e dunque la grande Kabbalah di Safed e il chassidismo da un lato e i contributi di Spinoza, Mendelsohn e la discussione intorno alla Haskalah o illuminismo ebraico) ci aiutano a trovare una risposta al problema della possibilità di una filosofia ebraica.
Questa soluzione, che è comune alla grande maggioranza di coloro che si possono chiamare propriamente filosofi ebrei, consiste nel rivendicare il carattere universale della rivelazione ebraica, la sua verità e validità per tutti gli esseri umani. Lebraismo è sì un lascito esclusivo del popolo che ha accettato la Torah, ma è anche il veicolo di valori universali che possono essere fatti propri da tutti i popoli. Questimpostazione, soprattutto nel corso dellultimo secolo, ha caratterizzato la filosofia ebraica per il suo accentuato aspetto etico. In Lévinas come in Buber e in molti altri, il contributo ebraico si vede innanzitutto nel mettere in primo piano i doveri che le persone hanno nei confronti del loro tu, del volto daltri, insomma del prossimo. Da questo punto di vista è difficile negare una specificità ebraica in questi filosofi, che certamente rispettano il carattere laico e universale di ogni filosofia, ma pensano che la filosofia debba partire dalletica piuttosto che dalla metafisica o dallepistemologia, dal rapporto con gli altri piuttosto che da quello con le cose, dal dovere piuttosto che dallessere.
Ugo Volli