di Fiona Diwan
Umano e divino, il cielo e la terra, il finito e l’infinito. Accettare il giogo della regalità dei cieli e magari dialogarci? Oppure negarlo? Quanti modi ha l’uomo per cercare l’Assoluto? In quante maniere possiamo guardare alla trascendenza, nella tenace ricerca di senso al nostro agire e sentire? Ogni civiltà l’ha fatto a modo suo, ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, ha tentato risposte e posto domande e lo fa oggi anche lo studioso Giulio Busi, 62 anni, in L’Uno- Il battito invisibile (Il Mulino, pp.156, 13,00), in un breve e mirabile saggio che è anche un viaggio spirituale alla ricerca di quel Tutto di cui facciamo parte. Sempre con la valigia in mano, instancabile viaggiatore tra Berlino, Dresda, Bologna, Milano, Gerusalemme e l’isola di Mallorca, Busi è soprattutto un grande studioso del misticismo ebraico, del Rinascimento e dell’Umanesimo, docente alla Freie Universitat di Berlino, autore di numerosi saggi e biografie.
Del resto, mai tema filosofico e teologico è stato così aspra materia del contendere e Busi ne dà conto con una sintesi originale, mai scolastica, il tono di una piacevole conversazione e di un felice trascorrere delle idee.
Rabbi Akivà e Platone, Rilke e John Cage, Mosè sul monte Horeb e Michelangelo Buonarroti alle prese con le sue sculture non finite. Ma anche Plotino, il Mahabaratta, le canzoni di Leonard Cohen. «Ho immaginato questo libro come un viaggio alla sorgente nascosta… », come a un filo sottile per guardare in fondo a noi stessi e riconoscerci, scrive Giulio Busi «Forse perché ho frequentato lungamente i racconti chassidici e le leggende cabalistiche, sono convinto del valore euristico, d’indagine e di ricerca, che ha il narrare. Raccontare, raccontarci sono spesso il solo modo di rompere il disagio, di approssimarci al segreto», spiega lo studioso italiano.
Ricordi, sogni, riflessioni personali che Busi intesse col proprio patrimonio di conoscenze, alla ricerca di epifanie, di squarci di significato. Ma che cosa è L’Uno? È il numero cardinale più astratto e universale, è l’icona dell’inconoscibile, l’unico per indicare la trascendenza e i possibili sentieri su cui farne esperienza. Poiché, sin dalla notte dei tempi, è sull’Uno e sull’idea di Dio che si misurano ambizioni e naufragi filosofici. Inciampando in un roveto inestinguibile oppure perdendosi tra le dune come pastori nella steppa, fuggendo come Giacobbe mentre sogna con la testa appoggiata a una pietra oppure vagando come carovanieri madianiti nei deserti d’Arabia. In fondo, questo libro è anche la via scelta da Giulio Busi per smarrirsi e ritrovarsi, un libro a tratti privato, e proprio per questo coinvolgente: ecco così l’autore che narra di se stesso in un pomeriggio indiano, immerso in una preghiera antica, immaginando di innalzarsi verso il cielo delle Sefirot…
Sono vagabondaggi di un flaneur erudito, racconti di viaggio, incontri casuali e esperienze interiori che si fondono con le vibrazioni dell’anima, in un corto circuito tra culture, testi sapienziali e citazioni che pescano nell’immenso forziere di conoscenze di Busi.
Il tutto segretamente scosso dal vento dell’emozione. Il vagabondare dei passi che concilia quello della mente. Fremiti, vibrazioni che s’inoltrano nei sentieri interrotti del pensiero, dai pendii scoscesi dell’isola di Mallorca fino a Madras, nel Tamil Nadu; dalle coste triestine di Duino alla valle del Kidron a Gerusalemme. Busi entra e esce con la consueta disinvoltura dai testi della sapienza universale: ma la sua è una forma di autocoscienza spirituale libera dalle costrizioni delle religioni istituzionali, un aprire nuovi cancelli per noi abitatori di un dubbioso presente. Nessun fuorviante sincretismo, quanto un intrecciarsi di saperi e culture alla ricerca delle scaturigini dell’idea del divino.
Ma che cos’è l’Uno nella sua essenza numerico-filosofica? Uno come via dell’astrazione e della sobrietà concettuale? Come atto di suprema ribellione contro la multiforme ridondanza dell’idolatria?
È una voce di sottile silenzio, risponde ebraicamente Busi, un sussurro tenue, a indicare il carattere interiore della comunicazione tra divino e umano. Vento, fuoco, terremoto di cui leggiamo nel Tanach non sono che segnali premonitori di ciò che avverrà ma non caratterizzano affatto l’incontro tra l’uomo e l’esperienza della trascendenza. Qol demamah dakkah, in ebraico, è la voce di sottile silenzio con cui l’Uno parla ai profeti e a ciascuno di noi quando riusciamo ad attivare canali inesplorati. «In quel sottile sta la misura e dismisura del divino», ci fa notare Busi: sottile come un punto, come la lettera yod dell’alfabeto ebraico che proprio per la sua piccolezza allude all’incommensurabilità del divino. Solo il minimo può rinviare a ciò che non ha misura, com’è scritto nel libro dei Re a proposito del profeta Elia. Nel misticismo ebraico, spiega Busi, il silenzio divino convive con l’imperfezione delle creature umane, senza che tra loro ci sia conflitto.
Troviamo qui numerosi affondi nell’ebraismo mistico e cabalistico. “Devi intuire con sapienza, essere sapiente con intuito”, è scritto nel Sefer Yetsirà, il libro per eccellenza del misticismo ebraico redatto nel III-IV secolo. Non a caso, il numero dieci del minyan è il numero del passaggio dall’Uno ai molti, dal divino all’umano, dal singolo alla dimensione collettiva, così come le dieci Sefirot esprimono con efficacia il passaggio dall’Uno al molteplice, l’energia divina che si travasa dinamicamente in dieci “azioni” in perenne divenire, ma pur sempre collegate all’Uno, alla fonte trascendente da cui tutto promana: l’esperienza della Bellezza, Tiferet e quella dell’intelligenza, Binah, il Chesed, l’amore-misericordia e la Ghevurah o Din, la Potenza e la Giustizia… E poi il tema del Male e quello del Silenzio, ma anche l’amore, la morte, la creatività…: dal Cantico dei Cantici ai Vangeli, Busi ci ricorda infine come, tra le tante, è forse l’esperienza d’amore quella che più di tutte è in grado di farci sperimentare il senso dell’Uno, l’abbraccio dell’Assoluto.
Giulio Busi, Uno. Il battito invisibile, Il Mulino, pp. 156, euro 13,00