di Paolo Castellano
Intervista a David Meghnagi
Pubblicata nel 2018 in lingua inglese, è ora disponibile nelle librerie italiane la raccolta di saggi Libia ebraica. Memoria e identità, edita da Belforte editore e curata da Jacques Roumani, David Meghnagi e Judith Roumani. All’interno del volume sono presenti diversi contributi per raccontare la storia, i costumi e le tradizioni delle comunità ebraiche di Libia, costrette ad abbandonare le proprie case e i propri averi dopo i terribili pogrom avvenuti tra il 1945 e il 1967. Tra l’ampia offerta di approfondimenti, c’è anche il testo di David Meghnagi, psicoanalista, docente universitario presso l’Università Roma Tre. Bet Magazine ha dunque approfondito con l’autore i principali temi della raccolta.
Ci sembra che lo scopo di questa pubblicazione sia quello di catturare l’eredità degli ebrei libici per preservarne la memoria e il patrimonio culturale. Qual è stata la condizione degli ebrei di Libia prima e dopo la violenza dei pogrom?
L’ultimo esodo degli ebrei di Libia si è verificato nel 1967, sotto la monarchia di re Idris che ha relativamente protetto la comunità ebraica come è avvenuto anche in Marocco e in altri paesi. Qui le monarchie moderate avevano una concezione dei rapporti con le minoranze che non era identificabile con quella del nazionalismo più radicale. Rientrava in una vecchia tradizione dove gli ebrei avevano una condizione di subalternità, anche morale e giuridica. Se pensiamo al passato, lo statuto dei dhimmi è stato abolito dagli ottomani nella seconda metà dell’Ottocento, dopo le pressioni delle potenze europee. L’emancipazione, non essendo stata generata dall’interno, senza un processo di profonda trasformazione interna della società, ed essendo stata percepita come un fenomeno indotto dall’esterno, ha assunto nella cultura araba e islamica una sorta di percezione di subalternità verso l’Occidente. Se i processi di emancipazione non sono generati dall’interno, diventa problematico il passaggio successivo. Questo non significa che l’emancipazione non sia un fatto giusto. Significa che l’emancipazione per essere coerente e globale deve maturare anche all’interno delle società. Nel mondo arabo questo non è mai accaduto veramente. Ciò spiega anche la profonda ostilità verso lo Stato di Israele, percepito come una violazione dell’umma islamica e non come un autentico processo di emancipazione ebraica che ha assunto anche una dimensione nazionale.
Qual è stato l’approccio dell’ebraismo italiano nei confronti della tragedia dei propri correligionari libici costretti a un doloroso esodo dal mondo arabo?
Il libro potrebbe essere utile per una rivisitazione della memoria dell’ebraismo italiano. Da un punto di vista ufficiale, attraverso le sue istituzioni, declina ancora parzialmente la sua storia in rapporto al Risorgimento e al tradimento spaventoso e devastante delle Leggi razziali del 1938. Però nel dopoguerra l’ebraismo italiano è stato arricchito e ha potuto continuare a svilupparsi grazie all’afflusso degli ebrei persiani, libanesi, siriani, iracheni, egiziani, libici. Tutto questo ne ha profondamente cambiato la realtà. Io ricordo che quando nel 2016-2017 proposero di creare dei momenti importanti di riflessione sugli ebrei di Libia, in relazione a tutto ciò che è accaduto agli ebrei del mondo arabo, incontrai delle incomprensioni profonde che erano espressione di un ritardo di elaborazione culturale che coinvolge le istituzioni ebraiche italiane. Il vissuto degli ebrei di Libia non viene nominato come parte della storia italiana. L’arrivo degli ebrei di Libia in Italia è stato largamente vissuto come l’arrivo di una comunità perseguitata nel mondo arabo. Ma quella comunità era parte della comunità italiana nel senso che la Libia è stata una colonia italiana e gli ebrei di Libia facevano parte dell’Unione delle comunità israelitiche italiane. Chi ha manifestato la grande empatia verso gli ebrei di Libia, precedendo le istituzioni ebraiche sotto ogni aspetto, sono stati gli scrittori. Come Primo Levi. Non per caso un suo brano è citato in apertura del saggio. Primo Levi incontra gli ebrei deportati dalla Libia a Fossoli e in una pagina meravigliosa di Se questo è un uomo parla di questo esodo e di questa sofferenza che ha il suo lutto prima della partenza. Lo scrittore, osservando questa gente, mostra un processo di grande identificazione e direi che è stato l’omaggio più grande scritto da un ebreo italiano a una componente che oggi vive ed è parte attiva della vita comunitaria degli ebrei italiani.