di Daniela Ovadia
Nell’edizione del 1906 della Jewish Encyclopedia, pubblicata a New York da Funk and Wagnalls, esiste una voce dedicata al diabete (che si manifesta con un eccesso di zucchero nel sangue) il cui sottotitolo, decisamente lungimirante per l’epoca, recita: “una malattia della civilizzazione”. In effetti, mentre il diabete di tipo 1, quello che colpisce i giovani, ha una causa autoimmune e non può in alcun modo essere prevenuto, il diabete di tipo 2, che colpisce le persone più in là con gli anni, è provocato soprattutto da scorretti stili di vita.
“Gli ebrei sopportano il diabete meglio degli altri popoli”, recita ancora l’enciclopedia americana. La ragione per cui i nostri correligionari mostravano una minore incidenza di questo disturbo rispetto ai loro vicini di casa è molto semplice: poiché erano poveri, mangiavano poco, dovevano lavorare sodo, si muovevano molto e ridevano volentieri. Come recita una celebre barzelletta, il binomio diabete-ebrei era addirittura entrato d’ufficio nel repertorio umoristico (“Dice un inglese: ho sete, devo avere un whiskey. Dice un tedesco: ho sete, devo avere una birra. Dice un ebreo: ho sete, devo avere il diabete”).
Cibo sano e non eccessivo, una costante attività fisica, sono infatti gli unici strumenti che la scienza ha dimostrato essere utili per non ammalarsi di diabete. Fondamentale è anche il mantenimento di un peso corporeo nella norma, che discende peraltro dalle buone abitudini di vita. Esistono però alcuni fattori genetici che possono influenzare il rischio di ammalarsi: nel 2004, per esempio, uno studio condotto da Duncan Odom del Whitehead Institute for Biomedical Research di Cambridge, nel Massachusetts, e pubblicato sulla rivista Science, ha scoperto, in alcune famiglie ashkenazite, l’esistenza di un gene mutato che è all’origine di un gran numero di casi di diabete di tipo 2 in persone che non sono sovrappeso.
«Il maggior numero di diabetici di tipo 2 si trova però tra i sefarditi», specifica Odom. «La responsabilità è soprattutto delle abitudini alimentari: la cucina sefardita è tradizionalmente troppo ricca e troppo abbondante per la vita sedentaria che conduciamo oggi». Sotto accusa anche alcune abitudini che derivano dalle norme alimentari ebraiche: i dolci, per esempio, vengono prodotti usando margarina, un grasso poco salutare che favorisce l’obesità; la carne, che deve essere presente sulla tavola dello shabbath e delle feste, andrebbe invece evitata gli altri giorni della settimana, e sostituita con legumi e verdure; l’abitudine ebraica di celebrare le ricorrenze a tavola porta facilmente a eccessi alimentari.
La prevenzione, tra l’altro, deve cominciare nell’infanzia: diversi studi hanno dimostrato che l’alimentazione da piccoli influenza il modo con cui il nostro organismo metabolizzerà gli alimenti nell’età adulta. La tradizionale suddivisione tra pasti di carne e pasti di latte porta a consumare troppe proteine e troppi grassi. Se la mensa scolastica serve carne a mezzogiorno, non è salutare servirla di nuovo anche la sera, né lo è mangiare formaggio tutti i giorni, perché si tratta di un alimento molto calorico. «La cucina ebraica è deliziosa, ma ha bisogno di essere rinnovata alla luce delle conoscenze nutrizionali moderne», conclude Odon. Qualche consiglio pratico? Sostituire la margarina con l’olio d’oliva; introdurre farinacei e cereali integrali che, oltre a prevenire il diabete di tipo 2, aiutano anche a tenerlo sotto controllo se si è già malati; evitare di consumare carne più di 3-4 volte la settimana e aumentare il consumo di frutta e verdura fino a cinque porzioni giornaliere.
Il libro
Daniela Ovadia, con Camillo Ricordi, ha appena pubblicato La fine del diabete (Dalai editore, pp. 159, euro 17,50). Una storia lunga quanto quella dell’umanità, ma negli ultimi decenni è forse giunta a una svolta grazie alle maggiori conoscenze acquisite sul funzionamento del pancreas, delle isole pancreatiche, del sistema immunitario e di tutti gli elementi coinvolti nel controllo della glicemia. È un ambito della scienza medica in pieno fermento, di grande interesse anche per i giovani che pensano di dedicare il loro futuro alla ricerca, come parte del lavoro congiunto di migliaia di ricercatori ed esperti che dovrebbero essere messi nella condizione di lavorare al meglio e di interagire. Solo con una visione strategica collaborativa della ricerca si può sperare di battere definitivamente il diabete.