di Ester Moscati
Che cos’è diventato oggi il Giorno della Memoria, a 14 anni dall’approvazione in Italia della legge che ha stabilito, per il 27 gennaio, il dovere di ricordare? Se lo è chiesto la scrittrice, traduttrice ed ebraista Elena Loewenthal in un libro dal titolo provocatorio Contro il giorno della Memoria.
Forse il titolo è però un po’ forzato? Quello cui lei si oppone mi sembra piuttosto il “fraintendimento” del GdM.
Sì, il titolo è provocatorio e un po’ forte, del resto è quello che richiede il mercato editoriale. È stato invece per me un libro molto sofferto; è il frutto di una riflessione che facevo da lungo tempo e che partiva da una sensazione di disagio, di imbarazzo, ogni volta che mi si chiedeva di parlare come ebrea, come scrittrice e addirittura come “testimone” -anche se sono nata nel ‘60-, alle celebrazioni del GdM. Per un periodo ho dato un taglio netto, non ho più voluto intervenire. Il libro è nato dall’esigenza di riflettere sul perché di questo sentimento. E ho capito. C’è qualcosa di profondamente sbagliato, un equivoco di fondo che mi disturba: il Giorno della Memoria viene percepito come un tributo agli ebrei, quasi un risarcimento per il quale dovremmo essere grati. E invece no. Paradossalmente gli ebrei non c’entrano con la storia della Shoah, perché la storia appartiene a chi la fa e non a chi la subisce.
Bisognerebbe quindi cambiare il soggetto del racconto, della rievocazione: non “Gli ebrei furono deportati” ma “I tedeschi, gli italiani, i francesi… deportarono”. Perché è una storia europea.
Esattamente questo. La Shoah devono ricordarla gli altri, non necessariamente per coltivare il senso di colpa, che non porta mai a nulla di buono. Ma per conoscerla, rifletterci, meditare. Gli ebrei no, non hanno bisogno del Giorno della Memoria per pensare alla Shoah. Per me è un fatto quotidiano, tanto che io invoco l’oblio. Se potessi rinascere, vorrei rinascere senza questo peso. E l’ho scritto nel libro perché vorrei che la gente si rendesse conto che per noi è pesante, doloroso, penoso ricordare. Che ne faremmo a meno. E c’è anche un altro motivo, un aspetto deleterio del GdM: la “sublimazione” della memoria; la pretesa illusoria che la memoria sia etica, morale e soprattutto “utile”. E che sia un dovere imprescindibile. Invece non è così, tanto che per vent’anni dopo la fine della guerra l’imperativo era “dimenticare”. La chiave di volta è stato il Processo Eichmann, che ha dato voce ai testimoni. Ma deve essere chiaro: ricordare non ci rende migliori, più buoni. Non è vero. Non bisogna illudersi.
È necessario quindi che sia chiarito un fatto. Il GdM non è un tributo che gli altri fanno agli ebrei, ma è l’anniversario dell’apertura dei cancelli di Auschwitz, quando i soldati russi, capitati lì per caso nell’avanzata verso Berlino, “videro”. Per la prima volta l’Europa vedeva la Shoah e oggi gli europei, quel giorno, devono riflettere sulla propria storia.
Mi ha colpita una sensazione ricorrente, che manifesta nel libro: che il tempo trascorso dalla Shoah sia insieme troppo vicino e troppo lontano.
È una mia percezione ed è uno dei motivi per cui mi sento inadeguata a parlare della Shoah. Non bisogna illudersi di capire perché la Shoah è incomprensibile. Sono figlia di sopravvissuti e quindi sento una terribile vicinanza. Perché ho visto negli occhi dei miei genitori ciò che hanno passato. Ma ho anche la certezza che non potrò mai capire né tantomeno sentire ciò che è stato. Primo Levi diceva che la vera Shoah sta nei sommersi, non nei salvati.
E poi c’è la “banalizzazione” della Shoah, che fa da corollario alla pretesa di capire. In una scuola, un’insegnante che aveva accompagnato gli studenti “in gita” ad Auschwitz mi raccontò che si era rotto il riscaldamento del treno, e così – disse – avevano la sensazione di essere come i deportati, al freddo. E no! No! questa è la retorica banalizzante che non accetto.
Un altro aspetto che lei stigmatizza è quello che chiama “società eventuale”. Non c’è memoria senza un evento. E questo vale per la cultura in genere, spesso più spettacolo e meno riflessione. Come se si volesse compensare, con la spettacolarizzazione, la superficialità del pensiero.
Lo vedo soprattutto nell’ambiente editoriale, che è quello che conosco meglio. Siamo la Società dell’Evento. Nei libri, ci sono le strenne natalizie, poi le uscite per il Giorno della Memoria (tra le quali peraltro è stato collocato anche il mio libro; per l’editore non avrebbe avuto senso pubblicarlo, per dire, in aprile…), poi San Valentino, la Festa della Donna. Ma quando il ciclo delle idee segue questo percorso è artificioso, ripetitivo. Mi dà fastidio.
Ho trovato interessante la considerazione che lei fa del GdM come una cerimonia ritualizzata che però contiene in sé il suo contrario: l’ansia di proporre sempre qualcosa di nuovo. Perché avviene?
Perché è la cartina di tornasole della debolezza della ricorrenza in sé. Della sua dissonanza. Sarebbe meglio che il Ministero della pubblica istruzione prescrivesse per quella giornata la lettura di una pagina di Primo Levi. E basta. In Israele, del resto, per Yom HaShoah c’è il suono della sirena. Poi la vita riprende. Ma oggi, proprio per l’equivoco di fondo su che cosa sia davvero il GdM, non si sa bene che cosa farne. Si torna al peccato originale di questa giornata. Rito, ma anche il suo contrario, la novità. È come se ci fosse la paura di annoiare con la ripetizione, e si volessero compiacere gli ebrei facendo ogni volta di più.
Infatti il GdM quest’anno è stato particolarmente ricco di eventi, almeno in Lombardia (una sola associazione – non ebraica – ne ha organizzati ben 37!) Non pensa che ci sia comunque una ricaduta educativa e formativa per il lavoro che viene fatto nelle scuole?
Ma sì, c’è ovviamente anche il lato positivo. È giusto che nelle scuole se ne parli. I ragazzi leggono dei libri e ne discutono, arrivano al 27 gennaio molto preparati; molti insegnati fanno un’opera meritoria. Devo dire che anche del mio libro si è discusso molto, e in fondo è stato compreso ciò che intendevo dire. Ne sono contenta. Ci si è fatti delle domande ed è quello che volevo davvero.
È appena uscito un suo nuovo romanzo, La lenta nevicata dei giorni, che prende il titolo da una poesia di Primo Levi. Parla del “dopo”, di due giovani sposi che durante la guerra sono rimasti nascosti nel Sud della Francia e poi lentamente tornano alla vita. Mi sembra che André possa essere il paradigma di chi, felice di essere sopravvissuto, si riappropria della ‘vis vitalis’ con tutto se stesso, mentre Fernande rappresenta la difficoltà di dimenticare, di tornare alla quotidianità, conservando a lungo un male oscuro nel fondo dell’anima. Che cosa ha voluto comunicare con questo romanzo?
C’è un andamento ciclico nel tempo del romanzo, la cronologia è invertita. La fine è l’inizio e viceversa. E c’è un interludio. Perché l’idea di fondo è che la Shoah è un passato che non passa. I personaggi declinano in modo diverso il loro essere “sopravvissuti”, anche se sono stati dei privilegiati. Sono rimasti nascosti in una grande villa sulla costa francese per quasi due anni.
Ma, sia pur romanzata, la storia – oltre alle pagine sulle deportazioni che sono assolutamente verosimili dal punto di vista storico – contiene alcuni spunti e personaggi di realtà. La Casa del Sogno è una villa sotto Cap Ferrat (la villa Santo Sospir a St Jean-Cap-Ferrat, la maison “tatouée” da Jean Cocteau, ndr). E Fernande è ispirata a Francine Weisweiller, che fu proprietaria della casa, mentre il Poeta è lo stesso Cocteau. Ho raccontato luoghi che conosco bene e con i quali ho un rapporto amorevole. Anche i personaggi, come me, non hanno vissuto direttamente questa storia, la Shoah, ma Fernande, come me, ne sente il peso come una pietra sul cuore, sui polmoni.
Sì, sarei più libera senza questa storia. Tanto che, nel mio libro Conta le stelle se puoi, ho voluto cambiarla. Ho fatto morire Mussolini nel 1924. L’Olocausto non c’è. Perché la Shoah non era ineluttabile né “necessaria”; soccombere non è il destino degli ebrei. Ma poi, di Shoah ho scritto ancora e forse ancora lo farò. Perché questo è davvero un passato che non passa. Mai.