di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] È inevitabile: si pensa sempre nelle categorie della cultura che ci circonda. Quanto più è astratto e generale il tema del pensiero, tanto più questa influenza si fa sentire. Accade anche spesso che questo condizionamento sia così avvolgente che si faccia fatica a capire non solo che altre società, altre culture abbiano categorie diverse dalle nostre, ma soprattutto che le nostre non si applichino ad esse. Per esempio idee come “letteratura”, “giornalismo”, “intellettuale”, che noi trattiamo come ovvie e universali, sono invenzioni sette o ottocentesche. E anche forme più antiche come “religione”, “filosofia”, “politica” sono state pensate per la prima volta specificamente dentro la cornice dell’Occidente e si applicano bene solo alle sue costruzioni storiche.
Nella tradizione ebraica, che pure a partire dalla tarda antichità ha risentito di influssi greci, e poi cristiani e islamici, vi sono categorie di pensiero assai diverse, che gli ebrei occidentali più o meno assimilati devono reimparare se vogliono comprendere davvero la loro identità. Che la “Torà” (non nel senso più ristretto dei 5 libri di Mosè), non sia legge ma anche educazione e storia e pensiero del divino e istruzione liturgica e teoria dei rapporti economici, giuridici e della morale, è difficile da capire oggi.
E così che cosa siano halachà, aggadà, midrash, middà, mashal e altre forme e strumenti di pensiero tipicamente ebraici. Sono termini che, quando proviamo a tradurli, a noi spesso paiono ambigui, complicati, sfuggenti. Ma in realtà sono ben definiti, solo che non rientrano nella griglia concettuale europea ma in quella del “pensiero ebraico”, come si usa chiamarlo oggi, con un’espressione che tradisce imbarazzo. Per questo sono meritori i tentativi come la traduzione commentata del Talmud babilonese in corso (che richiede però a sua volta una guida per essere compresa) o libri come quelli di Haim Baharier, Marc Alain Ouaknin, o le “letture talmudiche” di Emmanuel Lévinas, che si sforzano di entrare nel pensiero ebraico dal suo vero accesso, che sono storie e casi concreti, non principi teorici generali.
A questa serie si aggiunge oggi un libretto prezioso di un autore che si firma Haim Ben-Abraham (ma forse è uno pseudonimo), intitolato La via delle api, appena pubblicato da Giuntina. Il titolo è frutto di un gioco di parole, perché la stessa scrittura che in ebraico significa api può voler dire parole (ma anche cose).
Il tema è il midrash, commento, inteso dall’autore come il modo di lavorare sui testi della tradizione, a partire dalla loro espressione linguistica, per sbloccarli o disincagliarli dal loro significato letterale, far crescere il loro senso e permettere loro di esprimere di più di quel che sembrano dire. Il libro stesso è scritto in questa maniera, dato che commenta dei commenti, in modo da farli parlare del senso della loro funzione ermeneutica.
Esso è anche organizzato in un modo che evoca l’organizzazione tradizionale dei libri ebraici, con il testo di partenza al centro, circondato da note, commenti, piccoli saggi esplicativi. È un volume che l’appassionato di pensiero legge con autentico piacere, curiosità e anche col gusto di vedere dove sfocia il discorso. Ma che poi invita a una seconda e terza lettura, cioè a uno studio, magari confrontandolo alle fonti e agli altri libri che cita. E continua a dare da pensare.