di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] Nell’ebraismo della diaspora c’è spesso stata una doppia produzione culturale: in ebraico o aramaico i testi legali, liturgici, teologici; nella lingua locale libri di filosofia, di apologia dell’ebraismo, di morale e di poesia. Hanno scritto in arabo fra gli altri Saadia Gaon, Maimonide, Yehuda HaLevi; nel Rinascimento c’è una produzione importante in italiano da parte di scrittori come Leone de’Sommi, Salomone Fiorentino, Azariah de’Rossi; in latino scrisse il rabbino olandese Menasseh ben Israel.
La grande fioritura delle opere filosofiche dichiaratamente ebraiche ma scritte in lingua locale inizia in Germania alla fine del Settecento con Moses Mendelsohn e prosegue poi con Hermann Cohen, Martin Buber, Franz Rosenzweig, Leo Strauss, Gershom Sholem, Walter Benjamin, Hannah Arendt e vari altri. È una cultura distrutta dal nazismo, che solo in parte riesce a salvarsi negli Stati Uniti e in Israele.
Ma questa tradizione europea nel dopoguerra trova una nuova sede in Francia, dove vivono alcuni importanti intellettuali ebrei, in parte provenienti dalle comunità dell’Europa orientale devastate prima dal comunismo sovietico e poi sterminate dal nazismo. Sono fra gli altri Emmanuel Lévinas, André Neher, per un certo periodo Elie Wiesel, Éliane Amado Levy-Valensi, André Chouraqui, Leon Askenazi (Manitou). Hanno un incontro annuale, i Colloques des intellectuels juifs, una notevole credibilità accademica, un seguito fra i giovani, una capacità importante di dialogo interreligioso. Molti di loro seguono un enigmatico maestro coltissimo e intelligentissimo che vive come un clochard e si fa chiamare Monsieur Chouchani.
A questo gruppo ha dedicato un libro molto interessante l’importante storico delle religioni Marcello Massenzio, sotto il nome di Maestri erranti (Einaudi 2024). Il titolo è tratto in parte dalla figura inquieta e cosmopolita di Chouchani, su cui ha scritto un libro molto stimolante (La valigia quasi vuota, Garzanti 2014) anche Haim Baharier che ne fu allievo da ragazzo a Parigi e ora è anche lui fra i protagonisti del libro di Massenzio.
In parte però il titolo viene dagli studi che Massenzio ha svolto in precedenza su un altro celebre ebreo orientale che viveva in Francia in quegli anni, Marc Chagall. Nei suoi quadri compare spesso la figura di un ebreo che fugge dalle persecuzioni e dalla distruzione, portando con sé un rotolo della Torà. Per Massenzio si tratta del rovesciamento o del recupero di una vecchia figura dell’antisemitismo cristiano, quella di un ebreo che avendo respinto Gesù sul suo percorso verso il Golgota, è condannato a vagare per tutta l’eternità, senza poter mai morire. Per Massenzio questa figura redenta da Chagall indica un contenuto che gli sembra centrale nell’ebraismo, l’erranza. Essa implicherebbe non solo cosmopolitismo ma anche spirito dell’utopia, rifiuto delle gerarchie mondane, spiritualità pura. Su questa interpretazione utopica della tradizione ebraica si può certamente dissentire, anche perché l’ebraismo ha sempre avuto al centro, insieme alla Torà e al popolo, la Terra di Israele che proprio negli anni in cui si formava il gruppo parigino diventava di nuovo il centro vitale e attivo della nazione ebraica. Ma si tratta di un libro che affascina e fa pensare, anche quando le sue tesi non convincono del tutto.