di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] Un anno fa avevo scritto su questa rubrica di un libro di Valentine Lomellini (Il lodo Moro, Laterza) in cui per la prima volta usciva una ricerca accademica di grande respiro sugli accordi che lo Stato italiano aveva stretto con il terrorismo palestinese, a partire dal primo attentato del luglio 1968, quando un aereo El Al partito da Roma fu dirottato ad Algeri e sull’atteggiamento nel ventennio successivo, quando numerosi attacchi di terroristi arabi colpirono l’Italia e il resto dell’Europa.
Quel che usciva fuori dal libro è che non vi era stato un “lodo Moro”, se lo si pensa come un’iniziativa personale dello statista democristiano, ma che l’intera area politica di governo, dalla Dc al PSI, con la sola eccezione dei repubblicani e dei liberali (e all’opposizione del MSI) e il sostegno attivo del PCI, ma anche la burocrazia ministeriale in particolare degli esteri, i vertici dei servizi segreti e della polizia, la presidenza della Repubblica, parti della magistratura, avevano condiviso la responsabilità di stringere e soprattutto di attuare quegli accordi, anche al costo di stravolgere la giustizia evitando di catturare e di punire quando era possibile i terroristi e soprattutto di tradire il patto democratico esponendo alla violenza araba i cittadini ebrei, come si vide per esempio nell’attentato al Tempio di Roma del 9 ottobre 1982.
Ora la stessa studiosa ha pubblicato sempre da Laterza un secondo libro che estende la ricerca sugli stessi anni e lo stesso tema dal contesto italiano a quello europeo, prendendo in esame le reazioni al terrorismo palestinese di Francia, Germania Ovest, Gran Bretagna e Italia, attingendo ai rispettivi archivi politici e a quelli delle strutture di coordinamento che a un certo punto furono stabilite a livello europeo: La diplomazia del terrore 1967-1989.
Quel che emerge è analogo: con la parziale eccezione della Gran Bretagna i paesi europei mantengono dall’inizio, anzi da prima della Guerra dei Sei giorni una posizione fondamentalmente filo-araba e anti-israeliana. Quando interviene il terrorismo sospettano giustamente che esso abbia un appoggio nell’Est europeo (cosa che sappiamo da altre fonti, perché l’autrice fa del suo meglio per ridicolizzare senza prove questo legame). E soprattutto tentano un appeasement con i terroristi palestinesi e con gli Stati sponsor del terrorismo (Libia e Siria innanzitutto).
Il libro tenta continuamente di attenuare le responsabilità del terrorismo palestinese, sia accreditando il mito di un Arafat “moderato”, sia sostenendo che la presenza di attori statali esonera il movimento palestinista (che viene sempre definito “Resistenza”); ma lei stessa aveva spiegato altrove che esso si era sviluppato fra gli anni Sessanta e i Settanta con la delega degli Stati sconfitti da Israele di continuare la loro lotta con i mezzi del terrorismo.
Vi sono altre ragioni che rendono questo libro discutibile: le ricostruzioni sommarie e scorrette della strage di Monaco, della liberazione degli ostaggi a Entebbe, degli assalti a Roma e Parigi nell’82 (dove si definisce addirittura “israeliano” il quartiere ebraico di Rue de Rosier), la continua inesatta e tendenziosa denominazione dello Stato di Israele come “Tel Aviv”, soprattutto l’adesione indiscriminata al punto di vista anti-israeliano delle burocrazie di sicurezza europee.
Ma il volume è comunque utile per comprendere una fase cruciale del contrasto fra Stati europei e Israele, eredità di un antisemitismo millenario che ancora oggi è presente.