di Ilaria Ester Ramazzotti
“C’era qualcosa di cui mio padre non parlava quando io ero bambino. Io non sapevo, e non dovevo sapere. Papà aveva buchi sulle gambe, e un alluce mozzato; un numero misterioso marchiato sul braccio e spesso molte lacrime, ma non una parola che spiegasse quelle ferite e quel dolore”. Lo leggiamo lungo il viaggio nel tempo compiuto da Emanuele Fiano a cavallo di anni di vita, la sua e quella di suo padre, nel libro Il profumo di mio padre: L’eredità di un figlio della Shoah, pubblicato da Piemme Edizioni. Nelle sue 170 pagine, l’autore intreccia un passato e un presente che si sovrappongono e creano scenari personali e famigliari, pubblici e privati, che culminano con l’impegno complesso ma irrinunciabile di proseguire l’immensa opera di testimonianza e di promozione dei valori civili e sociali del padre Nedo Fiano, sopravvissuto ad Auschwitz e scomparso a Milano il 19 dicembre 2020.
“Io sono cresciuto, da bambino, con la consapevolezza di un male esistito e terribile, inspiegabile e non spiegato, a cui sapevo di dovere l’assenza di nonni, nonne, zii e zie e cugini – spiega nel libro -. Quel non-luogo della mia infanzia è diventato nel tempo, per molti ma non per tutti, il monumento immateriale all’abisso del Novecento”. L’abisso di un uomo e di una famiglia insieme a quello di un popolo, di una nazione e di un’Europa precipitati nei meandri più bui del secolo breve. Per l’autore, la scoperta delle vicende del padre e la volontà di comprenderle, si mischia alla volontà di comprendere una parte di mondo e di umanità. “La Storia, quella grande che ti fa piangere, era entrata dentro di me, molto prima che io la percepissi, e la memoria della mia famiglia, i luoghi, le parole e i suoni della vicenda di mio padre, fluttuavano evidentemente nell’aria, ogni giorno, come parole sfuggite”. “Spero in queste pagine di riuscire a raccontare come si sia dipanata in me questa lotta continua, tra memoria privata e volontà di costruire una pubblica coscienza”, svela.
Nelle sue righe riemergono ricordi di famiglia e il passare di giorni lontani, spesso difficili, come quelli della “Firenze matrigna” e traditrice degli anni Quaranta, luogo di origine e dell’arresto del padre e della sua famiglia. Riemergono le memorie dell’infanzia di Nedo Fiano, del padre bambino, e poi del giovane padre e marito trasferitosi a Milano, verso un capito nuovo, case nuove, impieghi nuovi e operosi, fino a prestigiosi incarichi di lavori a New York. L’uomo sopravvissuto e riemerso, che aveva avuto tre figli e si era laureato alla Bocconi studiando di sera, col rumore casalingo rassicurante della lavapiatti, che passava sui libri anche le calde vacanze famigliari in Versilia. Un uomo “con un coraggio da leone – scrive Liliana Segre nella prefazione del libro – che si era rifatto letteralmente una vita”, che “con le sue ferite inguaribili e comuni a tutti noi sopravvissuti, è stato nonostante tutto l’incarnazione stessa dell’ottimismo della volontà, del volercela fare”.
Riecheggiano nelle pagine anche aperte introspezioni psicologiche dell’autore: “Non è stato facile elaborare per me questo continuo riferimento a un padre che si portava sulle spalle un lutto familiare continuo e ce lo trasmetteva in varie forme, e continuamente era esaltato perché era sempre il primo, il più bravo. Uno sempre bravo, ma che io percepivo bisognasse sempre risarcire per quel passato che non passava”.
Il profumo di mio padre è altresì un libro che attraverso una complessa relazione fra genitore e figlio parla della trasmissione della memoria fra generazioni, di come tramandare uno scrigno prezioso capace di racchiudere le chiavi e i segreti sul male e sul bene, sulla schiavitù o sulla libertà dell’essere umano. “Quando papà cominciò a raccontare più nel dettaglio, io avevo circa 14 anni, era il 1977 – specifica Emanuele Fiano -. Papà una sera, in una conferenza, disse che lui si era sempre portato dietro una valigia, da Auschwitz, e che quella sera aveva cominciato ad aprirla. Ho la sensazione che poi l’abbia passata a noi figli. Ho come l’impressione di essere diventato uomo proprio quella sera in cui papà cominciò a parlare in pubblico, e in cui la mia dimensione privata, di figlio, si dovette confrontare con la dimensione pubblica, quella del dovere collettivo della memoria”.
Sono tanti gli episodi pubblici e privati riportati durante lo scorrere del racconto. Fra questi, il ricordo delle cene di Pesach e della lettura della Hagadà, con l’uscita dall’Egitto e dalla schiavitù. “Solo chi è stato schiavo può comprendere la libertà”, dicevo Nedo Fiano, citando Socrate durante i suoi incontri con gli studenti. E per questo, durante quei Pesach “papà piangeva e qualche piccola cosa raccontava, e faceva di quel Seder non una commemorazione di cose antiche e lontane, ma carne viva di adesso, di sempre”. Scavato nei ricordi dell’autore ritorna anche l’immagine di quel papà inginocchiato e lacrimante che bacia la terra d’Israele davanti alla scaletta dell’aereo, appena arrivato a Tel Aviv”. Un gesto emblematico che resta “qualcosa di facile da comprendere ma di impossibile da spiegare, senza precipitare in una spirale di domande sulle nostre identità più difficili delle risposte”. Ma con quei gesti e quelle parole, “papà ci ha coperto di senso, con il suo continuo racconto, ci ha insufflato ricordi non nostri che ora sono dentro la nostra coscienza come pietre angolari; ci ha indicato un grande orizzonte […] Con il gesto del braccio ci ha indicato un panorama di vita”.
Eppure, spiega l’autore, “sento come di non aver potuto capire fino in fondo mio padre, perché non tutto quello che ha visto, io l’ho potuto sentire raccontare”. Si allarga così nel libro una prospettiva di detto e di non detto a proposito delle cose viste nei lager, di parole e silenzi colti fra il dolore espresso e quello indicibile. “Papà ha nascosto il lato più basso che erano costretti a toccare, o perlomeno a vedere, non ha voluto intaccarci con la scoperta di cosa possa raggiungere l’uomo quando la sopravvivenza si staglia come ultimo definitivo obiettivo da raggiungere”. Così, la chiave è nel cercare, studiare, capire la natura dell’essere umano, colto fra vittime e carnefici, fra “sommersi e salvati”, per promuovere una rinnovata coscienza collettiva.
“Io lo prendo come l’ultimo passaggio del testimone – sottolinea l’autore -. Non mi lasciare mai, sembra che mi dica la voce di dentro, non permetterti di dimenticarmi, di dimenticare tuo padre e quelle rovine fumanti che ha attraversato, io che sono la tua coscienza, erede di mille racconti, non abbandonare mai la voglia di entrare fin dentro i meandri più crudi dell’animo umano, fin dove ogni morale si è persa, sappi che sei figlio della forza sovraumana di chi non si è dato per vinto, di chi ha continuato a sperare. Sappi che sempre sarà che l’uomo può perdersi e abbattere ogni confine, sappi che sarà sempre battaglia comunque, per impedire che la lezione sull’uomo sia persa”.
E nella consapevolezza che per sempre, degli amati genitori, proprio “le parole saranno ciò che di loro vivrà – conclude Emanuele Fiano -, mi pervade quell’intenso profumo del sapone Lifebuoy, quello che riempiva di sé e della propria fragranza tutta l’atmosfera del bagno della casa e della loro stanza, quel profumo di pulito irripetibile, che papà aveva sentito la prima volta, quasi giunto al termine della propria vita, su quel pagliericcio di Buchenwald, di fronte al salvatore nero”, un soldato americano giunto nell’ultimo non-luogo di schiavitù e deportazione che col suo ingresso inatteso aveva indimenticabilmente intriso di profumo l’aria tetra della baracca nel lager. Forse il profumo che poi avrebbe significato il rifarsi una vita, avere una famiglia, un buon lavoro. Un sapore di America e di libertà.
Libertà, forse, ma non liberazione. Il padre, dice il figlio, è uscito solo “fisicamente” dal lager. “Il tempo si è fermato ad Auschwitz – scriveva Nedo Fiano dopo una delle sue visite al campo insieme agli studenti delle scuole -. Dopo una vita quel non luogo è duro, arcigno, severo come allora. Stento ad andarmene, ho ancora uno strano sentire da prigioniero che non sa, che non può lasciare quel luogo di dolore”. I compagni di prigionia che gli avevano inciso delle ferite infette, lasciandogli i buchi nelle gambe, non erano riusciti a salvarlo davvero. E nemmeno quell’esercito d’oltreoceano che portava cibo e antibiotici, o quel soldato dalla pelle scura che profumava di sapone. Forse quel padre era rimasto inesorabilmente “libero, ma non redento”, come scrive Primo Levi, mozzato nell’animo, come il suo alluce ferito durante i lavori forzati. Eppure, ha scritto Emanuele Fiano, “ci rimarranno per sempre le sue parole e il suo insegnamento, il suo ottimismo e la sua voglia di vivere”. E “quel profumo, il profumo di mio padre, so che non mi abbandonerà mai”.