In vendita dal 6 settembre “Le ragioni di Israele”, un libro per comprendere il conflitto israelo-palestinese senza preconcetti

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di Nathan Greppi
Dopo il 7 ottobre, si è diffusa in Occidente una narrazione che vorrebbe far passare i massacri e i rapimenti compiuti da Hamas come una “risposta” all’operato d’Israele, confondendo aggrediti e aggressori e mettendo sullo stesso piano uno Stato democratico e un’organizzazione terroristica e integralista. Una visione che è figlia di una percezione distorta del contesto storico, politico e sociale in cui si svolge il conflitto israelo-palestinese.

Nel tentativo di fare chiarezza e di illustrare la situazione nella sua complessità, è appena uscito il breve saggio Le ragioni di Israele (Linkiesta Books), scritto da Riccardo Galetti, già presidente e responsabile esteri della FGS (Federazione dei Giovani Socialisti), e Roberto Sajeva, già segretario della FGS e direttore editoriale della rivista Mondoperaio.

I due autori partono ricostruendo il contesto storico e geografico della regione, per poi analizzare i mutamenti demografici che l’hanno attraversata nel corso delle varie epoche e i conflitti che hanno coinvolto le popolazioni ebraica e araba: dalla Seconda Guerra Mondiale alle guerre arabo-israeliane, dalla nascita dell’OLP a quella di Hamas. Non mancano inoltre le diatribe legate allo status di Gerusalemme, o la questione dei rifugiati palestinesi sotto la responsabilità dell’UNRWA.

Sajeva ci racconta che la proposta di scrivere il libro “mi è arrivata da Christian Rocca, direttore de Linkiesta, che seguiva i miei interventi politici sui social e in altri ambiti. Siccome già a fine ottobre era chiaro che mancava una risposta da parte del mondo editoriale al 7 ottobre, mi hanno coinvolto e ho subito pensato di contattare Riccardo, con il quale lavoro e faccio politica da tanti anni”.

Galetti ci spiega che le ragioni che li hanno portati a scrivere il libro sono legate, oltreché al voler contrastare la superficialità con cui la politica estera viene trattata in Italia, anche al loro percorso: “Noi abbiamo avuto un’esperienza politica a sinistra, e nell’ambito delle organizzazioni della sinistra internazionale, abbiamo cercato di aprire una discussione sana sull’argomento. Questo perché, dalla fine degli anni ’60 ad oggi, in quel mondo vi è molta emotività e malafede nell’interpretare queste situazioni. Una malafede che nel secolo scorso era legata alla loro vicinanza al blocco sovietico, e oggi alle teorie postcoloniali che vedono in Israele una sorta di progetto coloniale dell’Occidente”.

A tal proposito, Sajeva fa notare come i propal adottino due pesi e due misure: “È un mondo filopalestinese, ma solo in funzione antisraeliana. Nei decenni scorsi, i palestinesi hanno subito gravi torti anche da parte del mondo arabo, oltre ad esserseli fatti tra di loro. Quello postcoloniale è un movimento pretestuoso, che attribuisce alle Nazioni Unite un’aura di imparzialità, quando in realtà è un’organizzazione che spesso fa gli interessi di paesi non democratici e dei nemici d’Israele”.

Nel libro viene fatto notare come Israele sia un melting pot di culture e tradizioni diverse, ma spesso questo non emerge nel dibattito pubblico. Galetti sostiene che ciò è dovuto al fatto che “se emergesse, farebbe crollare due delle narrazioni fondamentali di coloro che criticano Israele a prescindere: innanzitutto l’idea del progetto coloniale europeo, che perde di senso nel momento in cui scopri che gran parte della popolazione israeliana proviene da Baghdad, Tripoli e altri luoghi del Medioriente e del Nordafrica. In secondo luogo, non emerge perché in quel caso, oltre all’esodo di centinaia di migliaia di palestinesi noto come Nakba, andrebbe ricordato anche l’esodo di altrettanti ebrei che vennero espulsi dai paesi arabi. E verrebbe fuori anche il confronto tra gli ebrei mizrachim, che dopo molte difficoltà iniziali sono riusciti ad integrarsi in Israele, e i rifugiati palestinesi, che vengono usati dai paesi arabi come pedine nello scacchiere geopolitico”.

Galetti conclude dicendo che “non so se riusciremo a convincere qualcuno delle ragioni d’Israele, anche perché è difficile combattere contro le immagini emotive su TikTok e Instagram. Ma se riusciremo perlomeno ad avere un dibattito pubblico più pulito, che non sia inquinato da fatti inesistenti o interpretazioni faziose, riusciremo comunque a raggiungere un risultato positivo. Perché, se il dibattito risulta già inquinato in partenza, anche discutere di eventuali soluzioni diventa difficile”.