di Fiona Diwan
Lo Stato ebraico non somiglia a nessuna altra nazione. Questo Paese non può garantire né sicurezza né benessere né serenità, ma può offrire l’intensità di una vita vissuta al limite». Così scrive Ari Shavit, giornalista, storico, opinion leader israeliano (una rubrica fissa su Haaretz il giovedì, e una in tv ogni venerdì), intellettuale super premiato e forse tra le voci più lucide del panorama mediatico israeliano: oggi manda alle stampe un saggio che è, in verità, un’appassionante e personale cavalcata nella storia di Israele. Come scrive l’autore, «questo libro è l’odissea privata di un israeliano disorientato dal dramma storico che sta inghiottendo la sua patria. È il viaggio nello spazio e nel tempo di un individuo nato in Israele che tenta di esplorare in un contesto più ampio la storia della propria nazione». Così, Shavit ci parla dei pionieri di ieri e degli israeliani di oggi come di «un popolo che è tornato dalla morte e che, pur essendo circondato dalla morte, ha messo in scena uno spettacolo di vita straordinario». Ed è la storia «di ragazzi nudi che affrontano un destino nudo in una terra nuda; orfani di una Europa ebraica che ha perduto tutto e a cui non restano che i giovani e la determinazione assoluta di costruire un futuro diverso». Shavit sa che oggi Israele è un Paese afflitto dalla sindrome di Pompei, che vive con la paura che la vita, da un giorno all’altro possa arrestarsi improvvisamente. Da buon israeliano, Shavit ha modi bruschi, con se stesso e con gli altri: non prende scorciatoie e non fa sconti a nessuno, né ai palestinesi né tantomeno ai sabra. Semmai, il suo idolo polemico è la gauche-caviar di Tel Aviv, quella sinistra radical-chic israeliana che Shavit accusa di cattivissima coscienza: di pontificare senza mai sporcarsi le mani dimenticandosi che la democrazia di cui oggi gode è frutto del lavoro sporco fatto da altri. Chi? Coloro che questo Stato lo edificarono con brutale fatica e non sempre potendosi permettere il lusso di metodi ortodossi. Esiste un lato buio, una specie di peccato primario che Shavit mette sul tavolo, senza pudori: «La nazione in cui sono nato ha cancellato la Palestina dalla faccia della terra». Ma poi aggiunge: «Se necessario, starò dalla parte dei dannati. Perché so che se non fosse stato per loro, lo Stato di Israele non sarebbe mai nato. Se non fosse stato per loro, io non sarei nato. Hanno fatto lo sporco e turpe lavoro che consente al mio popolo, a me e ai miei figli di vivere». Che cos’è quindi Israele? Israele sopravviverà? La questione israeliana non può essere risolta con le polemiche, scrive Shavit. Un libro che si legge d’un fiato con una cronologia storica tutt’altro che mainstream e condivisa: Shavit sa commuoverci con la storia dei ragazzi che bonificarono le paludi di Ein Harod e con la terribile vicenda di Lidda; poi ci stupisce con i capitoli appassionanti sugli aranceti di Rehovot e sull’edilizia popolare degli anni Cinquanta che ospitò i profughi della Shoà. Fino ad oggi, ai coloni di Gush Emunim, fino all’esaltazione di una pace promessa, a Oslo, alle due intifade e alle tende di Rotschild Boulevard. È la storia di Israele narrata col cuore stretto, con lo sguardo da innamorato e una prosa giornalistica emozionante. Ari Shavit sa guardare il cielo e non la pozzanghera che lo riflette, sa vedere la luna e ignorare il dito che la indica. Ha il respiro largo, la puntigliosità del cronista. E ci regala un libro con la qualità di un diamante: duro, tagliente, bellissimo.
Ari Shavit, La mia terra promessa. Israele: la storia e le contraddizioni di un paese in guerra per la sopravvivenza, Sperling & Kupfer,
pp. 456, euro 18,90