di Fiona Diwan
Vi ricordate l’edonismo reaganiano? Era la definizione “all’amatriciana” (copyright Roberto D’Agostino, 1982), di quell’ottimismo un po’ ottuso nel voler cogliere i nuovi frutti del benessere, cornucopia sotto forma di cumuli di magliette, scarpe, mutande, beni di consumo, viaggi premio, bonus aziendali, riffe natalizie… Insomma, una ricchezza che sembrava non dovesse finire mai. Pareva che quella pursuit of happiness, quella ricerca della felicità, aggiunta da Thomas Jefferson nella Dichiarazione d’indipendenza americana nel 1776, come diritto inalienabile, fosse diventata improvvisamente un patrimonio collettivo del pianeta occidentale. Anni dopo, arrivarono la Silicon Valley e Internet, la guerra del Kuwait e in Iraq, i cani di Abu Ghraib, le torri Gemelle, i titoli subprime… Come è stato possibile passare in soli trent’anni dal power ranger Ronald Reagan, dai bellicosi Bush, padre e figlio, al nero, democratico Barak Hussein Obama? Quale rivoluzione antropologica è avvenuta? Se lo chiede il giornalista Enrico Deaglio, in un acuto e divertente libro che è un vagabondaggio nella recente storia degli Stati Uniti. Un viaggio sentimentale lungo la sua leggenda. Partendo da Tocqueville e arrivando a Steve Jobs, passando da Truman Capote e Elvis Preasley, Henry Ford e Cristoforo Colombo. Nato nel 1947, Deaglio mette piede per la prima volta negli States nel 1983, al seguito del Presidente Sandro Pertini. Da allora se ne innamorerà perdutamente, tanto da andarci a vivere (in California), testimone curioso della straordinaria capacità Usa di rinascere dai propri fallimenti grazie a uno spirito pionieristico mai fiacco. Così, Enrico Deaglio ci regala oggi una chiave nuova per capire l’America, il suo sogno, i suoi incubi, le sue meraviglie, le sue crudeltà. Un catalogo di spassose americanate, «bellissimo termine per ciò che ci sembra volgare, smodato, ingenuo e… irresistibile».
Enrico Deaglio, La felicità in America, Feltrinelli, pp.254, 16.00 euro.