di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita]
Durante una delle sue conversazioni con David Ben Gurion, il pittore Marc Chagall cercò di convincere il fondatore di Israele dell’importanza della cultura in un’epoca in cui la priorità assoluta del movimento sionista e del giovane Stato di Israele era di creare una nazione di soldati-agricoltori.
Poco entusiasmato dalla cultura agricola del kibbutz, Chagall usò una metafora, paragonando la cultura al filo rosso dei tappeti persiani: pur tenue e discreto che sia, questo filo rosso è ciò che dà la sua coerenza ai motivi decorativi dell’artigianato iraniano. Come quel filo rosso, la cultura, pur essendo un lusso in un paese sottomesso a delle scelte esistenziali urgenti, ha la sua importanza come fattore strutturante della nazione emergente. Ben Gurion, che era una persona colta (benché autodidatta), voleva creare un “uomo nuovo”, rompendo il legame con la cultura diasporica alla quale gli ebrei europei erano stati abituati e nella quale eccellevano prima di immigrare in quel piccolo angolo del Mediterraneo orientale.
Per creare la cultura pionieristica del nuovo paese, Ben Gurion si ispirò alla cultura sovietica del primo decennio della Rivoluzione russa, una cultura che Chagall conosceva bene, essendo stato uno dei protagonisti del Futurismo sovietico all’inizio degli anni ‘20. Ma Chagall, appunto, non rimase nella Russia sovietica e la lasciò nel 1922. Non volle neanche stabilirsi negli Stati Uniti, dove passò sette anni (1941-1948). E in quanto ad emigrare in Israele, non era disposto a farlo, con il pretesto che, dopo duemila anni di esilio, lui, come molti ebrei ashkenaziti, non era più abituato al clima del paese.
La sua patria intellettuale era la Francia che, da buon ebreo russo, considerava come il faro della cultura europea. Così si spiega la sua apologia della cultura presso il leader sionista che pensava di creare una cultura senza radici per un “uomo nuovo” che, dalle sue radici, era stato tagliato via.
Che Chagall abbia avuto un’influenza su Ben Gurion o no, non importa. Fatto sta che la realtà sociologica e umana fu più forte del volontarismo del fondatore dello Stato di Israele. Durante i decenni successivi, Israele sviluppò degli altissimi standard culturali che facevano percepire lo Stato ebraico come un prolungamento della vecchia Europa. Questo paese, fondato nel Medioriente da ebrei est-europei, rivendicava per sé lo status di paese occidentale localizzato sulle sponde del Mediterraneo. Nei primi decenni dell’esistenza dello Stato, i teatri, le università, le biblioteche, i conservatori di musica erano generosamente sovvenzionati. Tuttavia, l’establishment ashkenazita che aveva trasposto a Tel Aviv, Haifa e Gerusalemme le abitudini culturali di Varsavia, Berlino e Vienna dimenticava che il “Secondo Israele” sefardita ed orientale aveva anche la sua propria cultura. Da Baghdad a Oran, i migliori rappresentanti della musica classica araba erano stati ebrei e in molti casi, gli ebrei dei paesi arabi erano stati attivi nella modernizzazione dell’orizzonte politico e culturale del mondo arabo.
Questo, l’élite ashkenazita non lo riconosceva e pensava che gli ebrei orientali in Israele fossero soltanto capaci di produrre la musica tonitruante dei matrimoni orientali. Le cose non cambiarono molto dopo la vittoria del Likud nel 1977. Nel campo culturale la crisi di identità della società israeliana scoppiò nel 2015 quando la marocchina Miri Regev fu nominata Ministro della Cultura. Odiata dalla bohème telaviviana, Regev volle riequilibrare la bilancia fra la cultura del centro economico e culturale del paese (Tel Aviv) e le periferie dove Ben Gurion e i continuatori della sua politica avevano emarginato gli immigrati venuti dai paesi arabi. Tagliò le sovvenzioni statali a molti rappresentanti della cultura elitaria di sinistra e dispensò la manna del sostegno istituzionale alle periferie, spesso identificate con ebrei non-ashkenaziti. Nel nuovo governo instaurato in maggio 2020, Miri Regev riceve il Ministero dei Trasporti. Comunque, oggi, la politica culturale dello Stato non deve più pensare alla questione “quale cultura” si debba sostenere: la cultura di stampo occidentale, favorita dall’establishment di origine ashkenazita, o la cultura orientale delle periferie? Oggi il Covid-19 ha falsificato i termini del dibattito: nessuno riceve più niente dallo Stato, i teatri e le sale da concerto sono chiusi e i professionisti dello spettacolo sono spesso costretti a diventare fattorini di pizze e sushi.