di Ugo Volli
[Scintille: letture e riletture] Nell’uso comune, la parola “Torà” si traduce per lo più come “legge”. Non mancano certamente le ragioni per farlo, dato che, ancor più delle narrazioni e delle ammonizioni all’obbedienza dei precetti, la legislazione è il contenuto centrale almeno degli ultimi quattro libri del Pentateuco.
Ma si tratta di una definizione certamente parziale, che deriva dal greco nomos adottato dalla prima traduzione dei “Settanta” e da Paolo di Tarso che ne fece uno dei termini fondamentali della distinzione del cristianesimo dalle sue origini ebraiche. Anche etimologicamente “Torà” significa “insegnamento”. È una lezione molto vasta, che insegna la vita buona per l’individuo e la società.
Ma tanto nelle narrazioni che nelle norme sono anche implicati pensieri sulla natura dell’uomo, del mondo, della storia, della presenza divina, che da millenni alimentano la riflessione non solo religiosa prima di tutto del mondo ebraico, ma anche delle grandi civilizzazioni nate dal cristianesimo e dall’islam che in vario modo riprendono i contenuti della Torà. Al di là dunque del commento puramente religioso, la Torà dà da pensare ai filosofi, agli psicologi, agli storici, ai sociologi, ai semiotici. Uno dei libri recenti più belli in questo ambito è The Philosophy of Hebrew Scripture (Cambridge University Press) del grande filosofo israeliano Yoram Hazony, uscito nel 2012 e purtroppo non ancora tradotto in italiano, che analizza il sistema di pensiero, l’antropologia, l’etica, la filosofia della storia della Torà.
Un’altra analisi recente altrettanto interessante è La Legge della parola. Radici bibliche della psicoanalisi (Einaudi 2022) di uno dei più noti psicoanalisti italiani, Massimo Recalcati. Egli indaga non tanto l’influenza della Torà sulla nascita della psicoanalisi – assai chiara nelle opere di Freud e dei suoi primi allievi, che erano quasi tutti ebrei -, ma piuttosto il modo in cui la psicoanalisi, in particolare quella lacaniana (cui fa riferimento Recalcati), sia capace di capire la Scrittura.
Vengono così presentate alcune letture psicologiche su episodi notissimi della scrittura ebraica: Adamo, Eva e il serpente, Caino e Abele, Noè, la torre di Babele, il combattimento di Giacobbe con l’angelo, Giona, Giobbe. Recalcati ha una grande cultura psicoanalitica e filosofica, che impiega magistralmente; ma non mostra di conoscere l’ermeneutica ebraica classica, o almeno non la cita quasi mai, anche perché il suo orizzonte teologico è dichiaratamente influenzato dalla cultura cristiana.
Ciò nondimeno le sue analisi sono molto interessanti anche dal punto di vista ebraico. L’idea di base del libro, quello che il contenuto principale della Torà sia una “legge della parola” che, imponendo un limite alle rivendicazioni illimitate dell’uomo, gli permette la vera libertà, è consonante con molti commenti rabbinici, ma ha un accento particolare non solo per la terminologia psicoanalitica, ma soprattutto perché sottolinea la dimensione linguistica di questa modalità fondamentale dell’intervento divino, il limite che libera. E questa lacuna, “la parola” ricca e molteplice che non coincide con la realtà, si frappone alla tentazione dell’uomo di essere “tutto”, cioè diventare “come dei”, nel suggerimento del serpente. L’errore per l’umanità più pericoloso e ricorrente: dal modo in cui viene inteso l’albero del bene e del male, alla volontà di Caino di negare la fratellanza per affermarsi da solo, alla “lingua unica” degli abitanti di Babele.
Il libro di Recalcati regala spesso osservazioni inaspettate, preziose sorprese ermeneutiche: frutto di uno sguardo acuto e “straniero” al testo centrale dell’ebraismo, ne mette in evidenza l’inesauribile ricchezza.