Una scrivania è solo un tavolo da lavoro? O è di più? Magari un oggetto metafisico fatto di tracce lasciate dalle vite di chi l’ha posseduta? Dopo aver finito di leggere questo libro, non riuscirete più a guardare nello stesso modo la vostra scrivania. Soprattutto se è antica, vecchia, usata, trovata nella cantina di famiglia. Perché è una scrivania, con i suoi misteri, i suoi segreti, la vera protagonista dell’appassionato La grande casa (Guanda, 334 pagine, 18 euro), il nuovo romanzo della scrittrice americana Nicole Krauss, bravissima come e forse più di suo marito, Jonathan Safran Foer (sono oggi la golden couple del bel mondo letterario newyorkese, malgado la scelta di vivere defilati, con i loro due bambini, a Brooklyn).
Una scrivania, dunque, che viene raccontata da quattro voci: si comincia a New York, con una donna a cui viene prestata, negli anni Settanta da un poeta ebreo cileno che sta tornando in patria, ma che dal Cile di Pinochet non tornerà più indietro… Poi la scrivania ci porta a Londra, nella Budapest degli anni Trenta, in Israele. C’è la guerra, l’Olocausto; ma soprattutto l’amore, l’abbandono, i sogni, tutto dentro quei diciannove cassetti, compreso uno che non si riesce ad aprire. Una scrivania che contiene storie: e la Storia. E una scrittrice, Nicole Krauss, che a 37 anni e al terzo romanzo (dopo La storia dell’amore e Un uomo sulla soglia, Guanda), dimostra di saperci incantare, senza mai perdere il ritmo.
Nuova star di quella che oggi viene definita la post-jewish generation -quella venuta dopo Saul Bellow, Phili Roth, etc-, madre inglese e padre americano cresciuto in Israele, ha nonni materni nati in Germania e Ucraina e nonni paterni nati in Ungheria e Bielorussia. Ma la scrivania protagonista del suo romanzo esiste davvero? “Sì. È la scrivania enorme, con una serie verticale di cassetti, su cui ho scritto il racconto che ha dato origine al libro. Una scrivania ingombrante, che ho ereditato dal proprietario della casa in cui vivo. La verità è che scrivo dove posso, quando posso. Ho scritto questo romanzo a Brooklyn, a Berlino, a Parigi, a Tel Aviv, ma anche in una biblioteca, la New York Public Library. E quando non scrivevo, pensavo, immaginavo, sognavo le pagine del libro, nella subway newyorchese”.
Nei libri di Krauss, ogni protagonista sente il peso della memoria ebraica. Perché è un tema così centrale? «Perché è un mezzo primario per creare un sé coerente, e ogni indagine interiore ci si deve confrontare. Mi interessa come la gente si inventi o si reinventi dopo una grande perdita, ma non solo. Samson Greene, il protagonista del mio primo romanzo, scorda 24 anni della sua vita e deve ricostruire il suo io con quel che gli rimane. Leo Gursky invece ne La storia dell’amore risponde al dolore alterando la realtà. Qui il titolo La grande casa viene da una delle più belle vicende della storia ebraica, quella che narra come gli ebrei, sotto la guida di Yochanan ben Zakkai, reinventarono se stessi dopo la caduta del Secondo Tempio e di Gerusalemme, una reinvenzione radicale che assumeva la perdita su di sé e li permise poi di sopravvivere nella diaspora».
Il suo romanzo è pieno di ebrei, temi ebraici, Shoah e Israele. Che rapporto ha Nicole Krauss con l’ebraismo? «In un certo senso il romanzo è ebraico, ma non necessariamente, non intenzionalmente. I personaggi sono ebrei perché è quel che conosco, ma per alcuni di loro è marginale. E i temi sono universali. Io non sono una persona religiosa. Ma quando scrivi impari qualcosa su te stesso. Così ora penso che quella indecisione nella mia scrittura sia parte di ciò che ho ereditato dall’ebraismo. Le religioni in genere chiedono certezze, fedi incrollabili. Nell’ebraismo è vero il contrario. È incoraggiato il dubbio. Tutta la tradizione poggia sulla discussione, le domande, il dissenso. Una volta Shimon Peres ha detto che il più grande dono degli ebrei al mondo era l’insoddisfazione. Questo vedere i problemi, le ambiguità, le incertezze, coesistere col disagio: la tensione è il luogo dove il pensiero ebraico ha eretto la sua tenda. Il Talmud credo sia l’unico libro sacro che incoraggi il dubbio. Penso che il popolo ebraico, -dopo la distruzione del Primo Tempio-, sia l’unico popolo ad aver trasformato la perdita in un anelito, riuscendo così a portare con sè in ogni luogo, chiuso in una valigia immensa -quella dello spirito-, la sacralità perduta del Tempio».
Il libro comincia con la figura di un poeta: il cileno Daniel Varsky, che abbandona la scrivania a New York. Varsky, però, non esiste. “Io amo i poeti. Come ad esempio il polacco Zbigniew Herbert. A 18 anni conobbi Joseph Brodsky: fu lui a suggerirmi di leggere Herbert. Che per me fu una rivelazione: di precisione e spiritualità, non-sentimentalismo e immaginazione, lucidità e compassione. Per molti anni le sue poesie mi sono servite da guida, per capire come volevo davvero scrivere. I miei luoghi del cuore? Ci sono molti posti, o frammenti di luoghi, a cui sono profondamente legata. La vista da Manhattan attraverso l’East River, ad esempio: con le fabbriche, il ponte della 59esima, la vecchia pubblicità icona della Pepsi Cola. È stato il mio primo sguardo sul mondo; il mio orizzonte anche quando ho scritto il mio primo romanzo, e l’inizio del secondo. E poi le spiagge di Tel Aviv, dove si sono sposati i miei genitori, dove mio padre nuotava da piccolo, dove io nuotavo da piccola, dove ora i miei bimbi nuotano. E ancora Hampsted Heath a Londra. La vista dalla finestra dei miei nonni a Gerusalemme… Ma la lista è lunga! Vorrei andare a Trieste: è la città da cui, negli anni Trenta, mio nonno, che era ungherese, partì: su una nave che andava in Palestina. Fu lì che conobbe mia nonna”.
Lisa Corva è columnist letteraria per il quotidiano Il Piccolo di Trieste, blogger (www.lisacorva.com), scrittrice, titolare di rubrica di moda per Grazia.