di Aldo Baquis, da Tel Aviv
Hamutal Shabtai ha scritto, nel 1997, un libro incredibilmente profetico andato a ruba oggi in Israele. Ispirato all’epidemia di Aids racconta ciò che accade adesso, proprio nel 2020
New York. È l’anno 2020. Una epidemia micidiale imperversa in tutto il mondo e la sorte dell’umanità è in gioco. Un sistema dispotico di diagnosi separa ormai in compartimenti stagni i sani dai contagiati. La paura della malattia diventa ossessiva, i rapporti interpersonali rappresentano una minaccia esistenziale. Quando nel 1997 Hamutal Shabtai pubblicò il suo ponderoso romanzo distopico 2020 – frutto di anni di ricerche e di un anno e mezzo di scrittura – Israele era assillato da ben altre questioni. C’era stata da poco la uccisione di Yitzhak Rabin, poi l’esordio al governo di un promettente leader del Likud di nome Benyamin Netanyahu e le continue frizioni con Yasser Arafat a Gaza. «Nei negozi di libri – dice Shabtai a Bet Magazine – 2020 fu sistemato negli scaffali della ‘fantascienza’». Allora non destò particolare emozione. Questo mese invece 2020 (che finora è uscito solo in ebraico) è esposto nelle vetrine dei negozi di libri, appena riaperti al pubblico dopo la chiusura forzata per il coronavirus. Clienti con le mascherine al volto sono ammessi uno alla volta, e fra gli scaffali si seguono con la coda dell’occhio tenendosi a distanza di sicurezza. La fantascienza di ieri fa visita nell’Israele di oggi.
A sospingere Shabtai verso la questione delle pandemie fu, negli anni Ottanta, il diffondersi dell’Aids. «Mi interessava verificare – spiega – come una epidemia potesse all’improvviso rivoluzionare i rapporti fra le persone, nei regimi e fra gli Stati. Come fosse possibile assistere alla repentina deprivazione delle libertà personali. Assistere al propagarsi di timori, terrore, sospetto anche a riguardo delle persone più vicine».
In quegli anni, durante un soggiorno negli Stati Uniti, Shabtai si trovò vicina a gruppi impegnati nella lotta all’Aids e alla difesa dei diritti dei malati. Vide il progressivo diffondersi del timore della malattia fra le categorie a rischio, tossicodipendenti inclusi. Il terrore crescente era che il virus subisse mutamenti, che i contagi potessero avvenire a sorpresa anche mediante forme nuove. Nel suo 2020 compì dunque una “libera estrapolazione” di quanto avveniva allora sotto ai suoi occhi.
Molti di quegli elementi sono per lei riemersi in superficie quando nel gennaio 2020 ha cominciato a interessarsi agli eventi in corso in Cina. «Si vedevano controllori nelle strade, l’attivazione di crematori, malati sigillati nelle case, persone ribelli che tentavano la fuga inseguite e neutralizzate da personale che indossava tute protettive molto simili a quelle della ‘polizia igienica’ che descrivevo nel mio libro. La sorte dei fuggiaschi cinesi sarebbe rimasta spesso ignota».
Nel suo romanzo l’inizio delle rigide selezioni fra sani e malati provoca un’insurrezione generale a San Francisco, che viene repressa nel sangue, mentre la marina militare statunitense viene inviata a bloccare una ondata migratoria proveniente da Paesi asiatici. Nell’inverno 2020 anche la chiusura dei confini in Europa per il coronavirus sembrava così seguire un suo copione. «Nel mio piccolo di ‘auto-nominata epidemiologa’, mi dicevo che se non lo avessero fatto, se non avessero bloccato i voli, sarebbe stato pazzesco, sarebbe stata una catastrofe».
«Quando c’è in gioco la sopravvivenza, ognuno vuole rinchiudersi nello spazio dove si trova. C’è un meccanismo di chiusura. Ognuno vuole stare con chi gli è più vicino. Può essere lo Stato, ma anche il proprio sesso». In 2020 una organizzazione femminile predica una crescente separazione fra i sessi. «Quando l’‘altro’ ti mette in pericolo, lo si guarda con sospetto. Ognuno vuole stare con chi gli è più vicino. È naturale, in periodi di paura». Ma tutto questo, precisa, aveva molta più attinenza col timore dell’Aids da lei visto in America negli anni Ottanta che non con l’esperienza di coronavirus vissuta ora in Israele: «Durante la chiusura qua molti cercavano ancora di organizzarsi incontri romantici, ed erano anzi frustrati per le limitazioni agli spostamenti».
Più che in altri Paesi, proprio in Israele si è fatto ricorso a sistemi di monitoraggio elettronico dei contagiati di coronavirus, affidandone l’incarico anche allo Shin Bet (i servizi segreti) che ha utilizzato sistemi elaborati in origine per la lotta al terrorismo. Tutto ciò non pare inquietante? «Affrontando la questione con un approccio medico (Shabtai è psichiatra, A.B.) direi che i controlli in sé sono positivi perché offrono un modo in più per lottare contro i contagi. Ma è ovvio che tutto ciò ha un legame col nostro timore di incorrere in una esperienza di dittatura. Che qualcuno assuma il controllo sulla nostra vita, di perdita dei diritti personali. Ciò può avere aspetti molto negativi».
Nel libro c’è un personaggio negativo, Kurt Schmidt, che espone la tesi secondo cui in casi estremi di pandemia la difesa dei diritti civili rappresenta un pericolo. Come mai in quel particolare contesto le sue parole, per quanto sgradevoli, sembrano avere una loro razionalità? «Per quanto concerne la paura del contagio, ossia quando è questione di vita e di morte, i diritti civili sono per lui una cosa da persone viziate. Innanzi tutto, dice, restare in vita, poi semmai parlare di diritti umani». Si troverà comunque di fronte personaggi temerari e anelanti alla libertà, che giocheranno il tutto per tutto. «Kurt Schmidt è un ‘sopravivvenzialista’ ad oltranza, e dispotico. È un mostro fascista. Ho comunque immaginato la sua figura come la personificazione della epidemia stessa: colei la quale ci carpisce tutto e che ci tiene sotto controllo, in cambio della vita. Avevo necessità di dare una forma concreta alla epidemia: lui ne rappresenta la crudeltà».