di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] La Shoah non è stata unica nella storia ebraica, cioè non è stata affatto il solo tentativo di distruzione totale del popolo. Ciò non fa sorpresa, perché la storia insegna che un piccolo popolo con vicini o padroni di casa potenti viene quasi sempre distrutto, sul piano dell’identità culturale e spesso anche su quello fisico. Vi sono due testimonianze bibliche di questi progetti di genocidio: quello egiziano raccontato nel libro dell’Esodo e quello persiano narrato nel rotolo di Ester. Ma poi ci fu un terribile tentativo romano di eliminazione degli ebrei dal loro impero fra il 63 aEC (invasione di Pompeo) e il 135 EC (rivolta di Bar Kochbà), con in mezzo la distruzione di Gerusalemme e del Tempio (70 EC). Non ci sono numeri, ma più della metà degli ebrei fu uccisa, la terra devastata, la religione proibita.
Un’altra distruzione terribile, su cui spesso non si riflette abbastanza riguarda il XVI secolo. Dopo la cacciata dalla Spagna (1492) e dal Portogallo (1496) venne la proibizione per gli ebrei dalla Sicilia e dal Sud Italia (1510), dai Paesi Bassi che erano parte dell’impero spagnolo, come dall’Austria e dalla Lombardia. Gli ebrei non potevano già da secoli risiedere in Inghilterra e in Francia. A Venezia fu creato il primo ghetto, una prigione a cielo aperto (1516), presto imitato nello stato della Chiesa (Paolo IV, 1555). Particolarmente terribile per gli ebrei fu il pontificato di Pio V (1566-72), che espulse gli ebrei da tutte le città del suo Stato, salvo Roma e Ancona. L’odio di Lutero rese difficile la vita agli ebrei anche in buona parte della Germania.
In sostanza essere ebrei era proibito in quasi tutt’Europa, a pena di morte; chi si convertiva formalmente per aver salva la vita, rischiava di essere processato, sicuramente condannato, spesso bruciato vivo dall’Inquisizione. L’Europa moderna nasce da questa tremenda persecuzione antiebraica, estesa su tutto il continente. Pochi in questi decenni erano i rifugi possibili: Ferrara, i ghetti di Venezia e dello Stato della Chiesa, la Polonia, e soprattutto i domini della Turchia.
L’ondata terribile incominciò a calare nell’ultimo quarto del secolo, con l’indipendenza dei Paesi Bassi, che scelsero la tolleranza, e la fondazione di Livorno, città fondata per essere aperta a tutti.
Una buona occasione per capire questo periodo è la ripubblicazione dopo vent’anni di una biografia scritta da Edgarda Ferri intitolata L’ebrea errante (Editore Solferino, euro 17) e dedicata a Grazia Nasi, detta anche Gracia Miquez e Beatriz de Luna o semplicemente “la señora” (Lisbona, 20 giugno 1510 – Istanbul, 3 novembre 1569). Nata in Portogallo da una famiglia ebraica convertita a forza ma ferma nella sua fede, sposata al più ricco della comunità degli ebrei clandestini, Don Francesco Mendes, erede della sua grande fortuna e di parte di quella di suo fratello Diogo, da Lisbona Beatriz riesce a fuggire ad Anversa, da qui, indagata per l’attività di sostegno agli ebrei fuggitivi dall’impero spagnolo, va a Venezia dove suscita nuovi sospetti e indagini sulla sua identità religiosa e sul patrimonio, passa per Ferrara e arriva finalmente libera a Istanbul. La sua ricchezza è immensa, le permette di trattare con re e imperatori, ma la sua condizione è sempre precaria, la sua identità dev’essere celata, la sua libertà sempre insidiata. In quel momento terribile Gracia è la guida di una resistenza del mondo ebraico, che va dall’aiuto ai singoli fuggitivi fino all’organizzazione del boicottaggio allo Stato vaticano per la persecuzione dei “marrani” di Ancona. Il libro di Ferri è scritto molto bene, accuratamente documentato, con quel tanto di romanzesco che aiuta la lettura. Leggerlo è piacevole, riflettere su quel che racconta terrificante.