di Fiona Diwan
Conoscere la musica ebraica
Dai canti sinagogali del Rinascimento a Mendelssohn, da Gershwin a Bernstein, da Irving Berlin al jazz. Fino agli stili musicali dell’Israele di oggi. Un saggio racconta l’avventura intellettuale e umana dei musicisti ebrei, la loro ascesa e caduta. E la ricerca di una tormentata identità
«Non si può assumerlo, sfortunatamente, anche se è stato battezzato, come voi dite. Per gli antisemiti lui resta ebreo e anche io resto ebreo… l’Opera di Vienna può a malapena sopportarne uno di ebreo». Siamo ai primi del Novecento, a parlare è il musicista Gustav Mahler obbligato, com’è noto, a convertirsi suo malgrado al cattolicesimo per poter dirigere l’Opera di Vienna. Il giovanotto in questione, a cui viene negato il lavoro in quanto ebreo, è invece il talentuoso direttore d’orchestra Leo Blech; la stessa sorte toccherà anche a un altro immenso musicista, Bruno Walter, a cui servì ben poco l’essersi cambiato il cognome, da Schlesinger a Walter, per sembrare “meno ebreo” e poter così emergere nel mondo musicale austro-tedesco infiammato da un furore antiebraico sdoganato da Richard Wagner pochi anni prima. Wagner era letteralmente ossessionato dal successo dei musicisti ebrei della precedente e propria generazione (Meyerbeer, Mendelsshon-Bartholdy, Offenbach, Halevy…), e aveva ripubblicato, nel 1869, il libello antisemita Il giudaismo nella musica; va segnalato che, al di là dell’inveterato antisemitismo, l’atteggiamento personale e privato di Wagner verso gli ebrei fu sempre ambiguo, perlomeno ambivalente, spesso opportunistico e tartufesco. A dirigere il Parsifal, ad esempio, volle a tutti i costi come direttore d’orchestra Herman Levi (che supplicò di convertirsi, senza successo).
Ma tornando a Mahler c’è da dire che la sua parabola resta certo, nella musica europea, uno dei più struggenti e emblematici casi di ricomposizione dell’identita ebraica spezzata: non solo ci racconta fino a che livelli fosse giunta la corsa all’assimilazione e la simbiosi ebraico-tedesca, ma anche il suo punto di rottura. E l’emergere progressivo di un ebraismo residuale, dolente e nostalgico. «Sono tre volte senza patria, come boemo tra gli austriaci, come austriaco tra i tedeschi e come ebreo in tutto il mondo. Dovunque un intruso, un indesiderato», ebbe a dire Mahler alla moglie Alma. Un ebreo di confine, animato da un ebraismo marginale ma ancora vivo, come testimonia l’uso che Mahler fa di sonorità paraliturgiche ebraiche, temi klezmer, nigunim e piyutim di melodie chassidiche, una sorta di elegante borscht sonoro, un incredibile cholent musicale; con l’utilizzo della famosa “seconda diminuita”, un intervallo irregolare che ritroviamo nel Terzo movimento della Prima sinfonia.
A raccontarci l’avventura intellettuale e umana dei moltissimi musicisti ebrei e la loro ricerca di una difficile identità, arriva oggi un piccolo ma importante saggio del grande storico della musica Enrico Fubini, Musicisti ebrei nel mondo cristiano (Giuntina, 12 euro), un’opera che in poco meno di 150 pagine riesce a contestualizzare una vicenda bimillenaria di musicalità diasporica, da Salomone Rossi al canto sinagogale, da Offenbach al caso Wagner, da Kurt Weill a Irving Berlin, da Leonard Bernstein a George Gershwin fino alla musica colta e popolare israeliana di oggi (e senza dimenticare i musicisti nella Shoah). Appassionante soprattutto la parte dedicata a Ottocento e Novecento, in particolare l’analisi, da un punto di vista ebraico di tre figure chiave, Mendelsshon, Mahler e Schönberg, tre musicisti attraversati da una peculiare dialettica interiore: quella tra appartenenza all’ebraismo, personale ambizione, volontà di aderire al mondo circostante e recupero delle radici. Notevole l’analisi che Fubini fa dell’elemento ebraico e qabbalistico legato all’invenzione della dodecafonia, l’ossessione per i numeri e l’interesse per la Ghematria, l’attenzione per i testi del Maharal di Praga, la musica intesa come “messaggio profetico”, il substrato etico e la dimensione religiosa ebraica nell’opera di Arnold Schönberg (nel Mosè e Aronne, ne La scala di Giacobbe, nel Kol Nidre…). Insomma, il tema della musica come strumento di preghiera.
Ad arricchire ulteriormente le nostre conoscenze in fatto musicale arriva anche un altro saggio, Musiche della tradizione ebraica in Piemonte -Le registrazioni di Leo Levi (ediz. Squilibri, 23 euro + CD), un testo all’apparenza specialistico ma in verità appassionante e per tutti, che raccoglie testi e registrazioni di musiche del minhag piemontese e italiano, a cura di Franco Segre e accompagnato da testi e commenti esplicativi di Francesco Spagnolo, Enrico Fubini, Walter Brunetto, Alberto M. Somekh. Attraverso l’immane lavoro dell’etnomusicologo Leo Levi, emergono così sonorità e cantillazione del patrimonio ebraico, le diverse liturgie, i canti e i piyutim… Perché, come dicono i Maestri, «la Torà non è Torà se non è cantata», e come massima laude, Dio chiede a noi il nostro canto.