di Ugo Volli
[Scintille. Letture e riletture] I libri di narrativa e soprattutto la memorialistica intorno alla Shoah sono tantissimi, di diverso valore storico e letterario; ma ognuno di essi è importante perché contribuisce a tener viva la memoria.
Qui voglio parlare di uno romanzo/saggio/memoria che mi ha colpito molto non solo per una qualità di scrittura e di narrazione fuori dall’ordinario, e neppure perché il villaggio galiziano (oggi ucraino) intorno a cui si svolge la ricerca, Bolechow, è quello dove ha vissuto a lungo la mia famiglia paterna e da dove è emigrato a Trieste mio bisnonno, per fortuna verso il 1880. Il fatto è che esso pone in evidenza anche punti storici che meritano di essere richiamati. Il libro si chiama Gli scomparsi, è stato tradotto due anni fa in Italia da Einaudi ed è stato scritto da uno scrittore notevole, Daniel Mendelsohn, che racconta in prima persona, partendo dai ricordi trasmessigli da suo nonno emigrato in America, la ricerca che svolge sul destino di suo prozio Schmiel e delle sue quattro figlie trucidate dai nazisti.
Daniel va in Ucraina alla ricerca delle tracce della sua famiglia, poi in Australia, in Israele, a Praga e a Vilna, per parlare con testimoni; interpola alla narrazione riflessioni che partono dalla lettura dei primi capitoli della Torah. Nel frattempo si immerge nella documentazione, trova lettere del prozio che sembrano accusare l’insensibilità dei parenti americani ma poi capisce che era impossibile tirarlo fuori dall’Europa nazista; risale per generazioni, indaga sulla convivenza degli ebrei galiziani con polacchi e ucraini (questi ultimi durante la Shoah spesso “volonterosi carnefici”), scopre però che alcune delle sue cugine sono state soccorse, purtroppo invano, da non ebrei. Una era fidanzata a un ragazzo polacco che “è morto per lei”.
Sul fondo della storia stanno le terribili tre “azioni” naziste che svuotarono Bolechow di tutti i suoi ebrei.
Quel che colpisce un ebreo italiano è la narrazione di come questa fase iniziale della Shoah non fosse perpetrata secondo le routine “industriali” dei lager che hanno conosciuto i nostri deportati, ma compiuta orribilmente “a mano” dai nazisti e dai loro collaboratori locali, braccando gli ebrei nelle case, torturandoli di persona, togliendo loro gli occhi, incidendo sulla loro pelle, uccidendoli con orribile sadismo uno a uno, sfondando teste contro le pietre.
Questo modo orribilmente “artigianale” di condurre il genocidio durò per un paio d’anni, distruggendo più di un milione e mezzo di ebrei; fu abbandonato solo perché risultava troppo dispendioso, lento e “logorante per il benessere psicologico delle SS”. La ricerca di Mendelsohn sul destino dei suoi parenti è resa necessaria proprio dal fatto che essi furono trucidati in questo modo, senza passare per la burocrazia dei campi. A seguirla impariamo molto, vediamo dei caratteri che lentamente riemergono dalla memoria, dei quadri di vita ebraica in Europa e in America e soprattutto un’analisi dettagliata di quest’altra Shoah, che non è quella atroce e “disciplinata”dei lager ma quella selvaggia e sadica degli “Einsatzkommando”. Vediamo così nel concreto che non vi è stata mai, ad Auschwitz come negli Shtetl, nessuna “banalità del male”, checché ne dica Arendt; che la Shoah è stato odio bestiale, la più sadica crudeltà, sete di sangue da parte di individui che provavano piacere ad ammazzare uomini, donne e bambini solo perché appartenenti alla “razza” che odiavano.