“La campanella suonerà a minuti!
Perchè non posso andare alla mia scuola?
Francesca e gli altri saranno già seduti!
Protesta Samuele, il pianto in gola.
La mamma lo accarezza e lo conforta:
“In quella classe non puoi più tornare, I fascisti ci chiudono la porta…
Anche io non posso più insegnare!
Ce l’hanno con la nostra religione, dicono che siam di razza “non ariana”
e ci perseguitano per questa ragione…
È come camminare su una frana!”
E’ il settembre 1938: il governo fascista approva le prime leggi che separano gli italiani di cosidetta “razza ariana” da quelli di cosidetta “razza ebraica”. Da quel momento, per il piccolo Samuele Finzi, come per tutti I bambini ebrei d’Italia, le porte della scuola improvvisamente, si chiudono.
Samuele Finzi, Sami, esiste solo ne “L’albero della memoria. La Shoah raccontata ai bambini”, scritto da Anna e Michele Sarfatti e illustrato da Giulia Orecchia (Mondadori 2013, pp.), ma, come si legge nell’introduzione al libro, “tutte le vicende che accadono a lui e alla sua famiglia sono realmente accadute a ebrei vissuti in Italia negli anni della persecuzione antisemita 1938-1945”.
Il libro, pensato per i più piccoli, è scritto sotto forma di filastrocca ed è dotato, in fondo, di un’appendice storico-documentaria.
La storia di Sami si svolge fra Firenze e la campagna dell’Impruneta, appena fuori città, dagli anni immediatamente precedenti l’emanazione delle Leggi antiebraiche fino alla fine della guerra.
Il libro si apre con un bell’affresco di famiglia che si riunisce al completo per il tradizionale pranzo di sukkà nel giardino della famiglia Finzi. E’ l’ottobre del 1935 e l’Italia è sotto la dittatura fascista. Sami ha quattro anni e, come ricompensa per aver aiutato mamma e papà a costruire la capanna, ha chiesto in dono “l’olologio di papà”.
Come in una foto di gruppo scattata nei giorni di festa, sotto la sukkà, insieme a Sami, vediamo Gemma e Vittorio, i genitori; lo zio Elio, appena licenziato (“Ho detto che il fascismo è una sciagura e loro mi hanno cacciato dal lavoro”); gli zii, Elena e Amos, e le cuginette Margherita e Dora.
Da questo momento in poi, vediamo Sami crescere.
Nel 1937, mentre la tempesta si avvicina (“gli ebrei sono accusati di ogni male”, dice lo zio Elio), Sami va a scuola e, come tutti, vuole indossare la divisa dei Figli della Lupa e imbracciare il moschetto; solo un anno dopo da quella scuola verrà espulso, come tutti i bambini ebrei, e continuerà a studiare a casa, con la mamma e le cuginette.
A ruota, Gemma e Vittorio perdono il lavoro (ma non ancora la speranza), mentre gli zii e le cuginette partono per l’Argentina (“qui non può che peggiorare!”).
Nel 1940, quando anche l’Italia entra in guerra, i Finzi attraverso momenti duri – “pochi soldi in famiglia, tempi grami è un’impresa far tornare i conti” – e Sami è rimasto solo: dei vecchi compagni di scuola solo Francesca continua ad andare a trovarlo e anzi a chi la critica “gira la testa o risponde che lo fa con gran piacere”.
Con l’8 settembre 1943, Firenze, come il resto del Centro e del Nord Italia, è nelle mani dei tedeschi. Gli alleati cominciano a bombardare le città occupate; i tedeschi cominciano ad arrestare e deportare gli ebrei. I Finzi a questo punto devono prendere “serie decisioni”: Sami andrà all’Impruneta, dai nonni di Francesca, e si chiamerà per tutti Emilio Zini; Gemma e Vittorio invece rimarranno nascosti a Firenze, in una casa diroccata “cercando di sparire dalla vista”. Ma presto la soffiata di una spia li farà arrestare dalla polizia fascista. Sami non li rivedrà mai più.
La famiglia Finzi, ritratta all’inizio del libro, unita sotto la sukkà, è ormai disgregata, spezzata dalle vicende della Storia.
Sami si salverà. Tornerà a Firenze nell’agosto del 1944, subito dopo la liberazione della città. Ritroverà e riabbraccerà solo lo zio Elio. Dei genitori, Gemma e Vittorio, non avrà nessuna notizia; gli rimarrà solo il ricordo e un dono, quello desiderato sin da piccolo: l’orologio da taschino di papà, con la foto di loro tre tutti insieme. Vittorio, prima di essere arrestato, era riuscito a nasconderlo dentro l’olivo cavo, nel giardino di casa.
“L’albero della memoria” è un racconto per bambini, breve, eppure completo. Con pochi cenni e un sapiente gioco di rimandi e allusioni, Anna Sarfatti riesce a raccontare le vicende vissute dagli ebrei italiani durante la Shoah, e molto di più: riesce a dire delle molte sfaccettature dell’ebraismo italiano. Ci dice dell’ integrazione degli ebrei nella società italiana del tempo e dei loro sentimenti di attaccamento alla patria (anche della loro partecipazione alla Prima guerra mondiale). Attraverso la famiglia Finzi si colgono persino i diversi atteggiamenti assunti dagli ebrei nei confronti del fascismo: lo zio Elio, lo si intuisce sin dall’inizio, è da subito un antifascista ; gli zii e le cuginette dai nomi aristocratici, che nel 1938 “sognano ancora con le foto dei Savoia”, rimandano immediatamente al tema del tradimento subito dagli ebrei con l’emanazione delle Leggi. Il tema dell’incredulità di fronte alla separazione fra ebrei e ariani è quello che emerge dalle parole di Gemma e Vittorio che non vogliono lasciare il paese, che pur preoccupati, rimangono fiduciosi, che vedono la tempesta come qualcosa che dovrà per forza di cose passare (“Non ci disperiamo, finirà, così come è cominciata”)
E poi c’è il tema della famiglia – unita sotto la sukkà all’inizio del libro e poi via via disgregata, dispersa, rimpicciolita; il tema dell’amicizia – degli amici che restano e di quelli che voltano le spalle. Dopo l’8 settembre, insieme al tema della clandestinità, della delazione e degli arresti, troviamo le figure dei Giusti e dei Partigiani, fino alla liberazione e al “ritorno” – alle case, distrutte e vuote, ma anche alla vita e anche per certi aspetti, alle radici ebraiche (“Tu mi aiuti a studiare per il Bar Mitzvà?” chiede Sami allo zio Elio, “Voglio leggere l’ebraico a perfezione, ma in questi mesi l’ho proprio trascurato”).
Infine, il tema della memoria, quella memoria che si conserva attraverso il ricordo personale, ma anche attraverso gli oggetti rimasti, quelli appartenuti ai cari scomparsi, inghiottiti nel nulla dei campi di sterminio; le fotografie, sbiadite, ma ancora vivide che ricordano un tempo che sembrava promettere solo momenti felici. Connesso al tema della memoria, quello dell’albero – l’olivo cavo… – custode silente e maestoso della memoria, come si legge nell’Introduzione; ma anche simbolo della vita che, nonostante tutto, procede.