Le conseguenze economiche delle leggi razziali spiegate da Ilaria Pavan

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di Michael Soncin
Quando si parla di Shoà c’è forse un aspetto su cui non ci si è soffermati abbastanza nello specifico: quali ripercussioni hanno avuto le norme antiebraiche? A rispondere è Ilaria Pavan, docente di Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa, che nel suo saggio Le conseguenze economiche delle leggi razziali (ed. il Mulino), traccia un percorso che parte dagli anni del nazifascismo per arrivare fino ai tempi odierni.

 Non solo le leggi razziali: gli atti normativi
Pavan, esperta della persecuzione degli ebrei in Italia, ribadisce come le tematiche da lei trattate siano “state spesso omesse dai libri di storia, e dal racconto che tutt’oggi viene fatto sui media, anche in occasione del Giorno della Memoria. Queste leggi ebbero vita lunghissima, impattando nella quotidianeità di una comunità fatta allora di circa 50.000 persone”.

La storica chiarisce che ad aggiungersi alle leggi razziali emanate tra il settembre del 1938 e i primi mesi del 1939, si affiancarono “una serie di atti normativi minori, che esistono tutt’ora e sono le prassi dell’amministrazione pubblica, che dai vari ministeri coinvolti nella persecuzione, principalmente quello dell’interno, delle finanze e della giustizia, venivano quasi quotidianamente inviati alle prefetture e alle questure, precisando i nuovi divieti a cui gli ebrei erano sottoposti”.

Erano divieti che non erano scritti nei testi di legge, ma che per quasi tre anni vennero aggiunti a ritmi giornalieri. “Uno stillicidio che riguardava perlopiù le questioni economico-professionali, che stringevano il cerchio attorno alla comunità ebraica ed i suoi appartenenti, fino a rendere praticamente impossibile ogni attività lavorativa”. Medici, ragionieri, avvocati che non potevano più svolgere la propria professione. Le proibizioni erano veramente di ogni tipologia e si spingevano agli estremi. Era vietato avere scuole di ballo, pubblicare delle inserzioni pubblicitarie sui giornali o richiedere un prestito per far fronte alle varie necessità. “Ossigeno che veniva progressivamente tolto. Pensiamo agli impiegati pubblici, dalle poste agli insegnanti, che si ritrovarono letteralmente senza lavoro dal giorno alla notte, non avendo più diritto nell’immediato ad uno stipendio”.

I commercianti, invece, erano costretti a svendere la propria attività, spesso al compagno di negozio, che approfittava della situazione. “Tutto ciò alimentava una catena di sostituzione di proprietà, che avveniva nel pieno rispetto delle leggi sancite dal Codice civile, attraverso un contratto che alla fine della guerra avrebbe avuto un valore; quindi, l’ex perseguitato obbligato a vendere perché messo in quella condizione dalla persecuzione razziale, non avrebbe più avuto nessun effetto giuridico, per riavere indietro la sua attività. Pensate ad un caso del genere moltiplicato per altri mille”.

Ilaria Pavan, Le conseguenze economiche delle leggi razziali, Il Mulino, pp. 320, euro 25,00.

 

La persecuzione italiana è per durata dopo quella tedesca
Non si riflette mai abbastanza sul fatto che durò sette anni: “È un dato che sembra banale, ma la persecuzione fascista degli ebrei è seconda per durata in Europa, dopo quella nazista; inoltre va anche sottolineato che è stata voluta non durante la guerra, quindi in quel tipo circostanza che muta un po’ lo scenario, ma in tempo di pace. Nel ’38 il paese non era ancora entrato in guerra; in un perfetto periodo di pace il governo fascista decide di introdurre le leggi razziali”.

Altro fatto messo in chiaro dalla ricercatrice, riguarda i 20 mesi dell’occupazione nazista, perché “se gli arresti degli ebrei italiani vennero condotti spesso per mano congiunta di fascisti e nazisti, le autorità della Repubblica Sociale Italiana (RSI) ebbero invece l’esclusività di gestire la spoliazione dei beni degli ebrei. Il comando nazista con una circolare aveva dichiarato che la confisca dei beni rimaneva nelle mani dei fascisti”.

L’opportunismo del popolo
Se prima era negato loro il lavoro, un salario, dal novembre del 1943 verrà confiscato agli ebrei semplicemente “tutto”: la pensione, il deposito bancario e qualsiasi altro oggetto presente nelle loro case. “Porte forzate, appartamenti saccheggiati e liste meticolose di tutto quello veniva rinvenuto. Liste di pagine e pagine che ancora oggi si trovano negli archivi: la caffettiera, un paio di calze usate, la poltrona un po’ rotta, coperte, materassi”.

Pavan continua spiegando che i beni di minore valore venivano ammassati e poi redistribuiti su competenza delle autorità comunali di qualsiasi città, per essere consegnati agli sfollati e agli altri italiani, che si trovavano in condizioni durissime durante la guerra. Se per questi non è certo stabilire chi ne beneficiava, se fosse stato al corrente della provenienza, per i più preziosi sì, perché sarebbero stati messi all’asta pubblicamente nelle varie città d’Italia: interi salotti, pellicce, servizi di piatti di porcellana di pregio. Di queste aste esiste una documentazione comprovata, vendite che hanno avuto luogo nelle maggiori città d’Italia. Le autorità fasciste ne davano annuncio pubblicizzandole con svariati elenchi, per stimolare le persone a parteciparvi, ed infatti, erano frequentatissime. Chi erano i partecipanti? “Italiani comuni che sapevano benissimo qual era l’origine dei beni messi in vendita. Spesso era il vicino di casa, che sapeva, ad esempio, che il suo vicino di casa ebreo aveva un bellissimo tappeto, sui cui magari aveva messo gli occhi anni prima; e costui si presentava alle aste, spesso sotto falso nome per mantenere l’anonimato, acquistando poi i beni. Un mercato del genere è andato in scena, nello stesso identico modo, in tutti i teatri di guerra d’Europa, dove si svolsero le persecuzioni ebraiche: Francia, Belgio, Germania…”.

Un affresco ben chiaro, delineante un amaro ritratto: “La partecipazione del cittadino qualunque al sequestro e all’impoverimento di un ebreo. Questo ci dà la misura dell’opportunismo, del cinismo e dell’indifferenza che si mise in moto attraverso le leggi razziali”.

Il privare i cittadini ebrei dal lavoro, depredandoli di ogni bene, è stata una mossa per indebolirli che ha facilitato la deportazione, poichè togliere i mezzi di sussistenza, ha reso più difficile la fuga nel cercare di salvarsi dai rastrellamenti. I due fatti sono perciò fortemente connessi tra loro. “La persecuzione – come hanno sottolineato i più importanti storici della Shoah tedesca – è fatta di tanti passi concatenati, sia da un punto di vista del disegno ideologico politico sia materiale: prima si schedano, si individuano, poi si attaccano i loro diritti e infine li si stermina. È una progressione il cui passo successivo è insito in quello precedente”.

Nel filmato: Ilaria Pavan durante una conferenza a Padova, mentre parla del suo libro, febbraio 2023. 

Burocrati attivamente responsabili
Dimentichiamo la burocrazia italiana come siamo soliti pensare: lassista, superficiale, con poca voglia di lavorare. “Se guardiamo la documentazione dei vari enti, ma soprattutto le carte locali, delle prefetture e dei comuni, come i carteggi, nei quesiti su cosa farne dell’ebreo, emerge l’immagine di una burocrazia che non solo obbedisce senza porsi domande (è un po’ il modo di come è solita procedere: c’è un funzionario che riceve un ordine e costui obbedisce), ma spesso il burocrate alzava la posta in gioco, ponendo una domanda al ministero, una dinamica che portava il ministero stesso a rendere ancora più stringente la persecuzione in atto”.

“C’era un dialogo tra il centro (burocrate) e la periferia (ministero), che non solo testimonia l’assoluta obbedienza del burocrate, ma il suo ruolo quasi attivo nel cercare di stimolare ulteriormente la persecuzione un passo oltre; quindi, non erano solo obbedienti, erano anche zelanti. Tante di queste persone sono rimaste al loro posto dopo la guerra”, continuando a svolgere il loro lavoro come se nulla fosse.

Ilaria Pavan fa notare un particolare della copertina del suo libro: nella foto si vedono dei faldoni d’archivio, con i documenti della vendita dei beni ebraici, recanti la scritta “EGELI”, acronimo che sta per “Ente di gestione e liquidazione immobiliare”. “Era l’agenzia creata dal fascismo nel 1939, guidata dal ministero delle finanze, per gestire i beni immobili (terreni, fabbricati, imprese) sequestrati agli ebrei, per rivenderli poi ad altri italiani, chiaramente ariani. Una creatura fascista, nata per perseguitare gli ebrei, che non solo non viene smantellata dopo il 1945 come ci si aspetterebbe, in quanto emblema della persecuzione razziale, ma continua la sua vita anche nel secondo dopoguerra. Molto probabilmente le stesse persone che avevano sequestrato quei beni agli ebrei erano poi le stesse incaricate di restituirli. Nemmeno la classe politica democratica penserà che varrà la pena adoperare questa cesura”.

Sarebbe logico pensare che l’ente avendo tutti gli schedari ed i dossier restituisca i beni di sua spontanea volontà. Invece no. “L’ente rimane in attività ma non si prodiga per la restituzione. Se il singolo ebreo non compilava il modulo e non inviava la domanda per avere indietro il bene, l’ente se lo teneva”, sempre che questo bene non fosse già stato venduto durante la razzia antisemita. La docente parla anche di un altro aspetto paradossale: l’ente chiedeva dei soldi per restituire alla vittima quanto le spettava di diritto.

“Non solo gli aveva sequestrato il bene, ma quando l’ex perseguitato richiedeva indietro l’appartamento (uno tra i tanti casi), l’Egeli pretendeva il pagamento di tutte le bollette, dei setti anni in cui non c’era stato, in quanto in fuga per cercare salvarsi. Se l’ente in quegli anni aveva deciso di rifare le finestre o il tetto, il proprietario per riavere indietro la propria casa, doveva pagare le spese che l’ente aveva versato”.

“Immaginate che tipo di percezione può avere avuto un ex perseguitato razziale, nei confronti di un nuovo stato democratico uscito dalla resistenza che però nei confronti di questa minoranza continuava ad assumere degli atteggiamenti vessatori”.

La propaganda smascherata
È ben conosciuta la propaganda dell’epoca che ritraeva gli ebrei come potenti, ricchi, infiltrati, non italiani, non patrioti e per essere molto numerosi. L’esatto opposto della realtà. “Erano pochissimi, lo 0,1% della popolazione. Lo stesso censimento a cui furono sottoposti alla fine del ’38, raccolse dati statistici che andavano contro la stessa propaganda fascista, mostrando un profilo medio fatto di impiegati pubblici e commercianti, molti dei quali piccoli commercianti, che avevano il negozio di merceria, o addirittura erano venditori ambulanti.

La cosiddetta élite ebraica era formata da un segmento veramente minuscolo di persone, spesso tra l’altro, in questa componente era stato abbandonato l’ebraismo, si erano convertiti e non erano più iscritti alla comunità. L’idea che si aveva dell’ebreo, dell’ebraismo era completamente falsata dalla propaganda, la realtà era ben tutt’altro”.

L’omissione contenuta nella legge del Giorno della Memoria
Sono ormai passati 23 anni da quando è stato introdotto in Italia il Giorno della Memoria. Correva l’anno 2000. E proprio sul testo che istituisce questo giorno, la studiosa fa notare un particolare, un’omissione molto importante. “Non so se lo avete mai letto. Cosa salta all’occhio nella legge che istituisce il Giorno della Memoria, che dovrebbe ricordare anche le persecuzioni italiane? Cosa non c’è? Non c’è la parola fascismo, tantomeno Repubblica Sociale Italiana (RSI). Cosa c’è scritto che dobbiamo ricordare? Auschwitz? Certamente, ma questo si riferisce ai nazisti. Leggendolo noterete queste assenze. Vi è una sorta di spostamento geografico immediato di cosa dobbiamo ricordare e a che cosa dovrebbe servire quella giornata, che viene portata fuori dai confini della nostra nazione e della nostra storia”.

Il documento originale della legge 20 luglio 200, n. 211 promulgata dal Presidente Ciampi con la quale la Repubblica italiana riconosce il 27 gennaio quale “Giorno della Memoria”. (Foto: Archivio Centrale dello Stato)

Questo spinge ad una profonda riflessione, poiché come spiega, non è una casualità: “È voluta. È una legge, e come succede per qualsiasi testo di legge, è frutto di un confronto parlamentare, un dibattito, un insieme di decisioni che spesso rappresentano dei punti di caduta e di compromesso tra i diversi schieramenti politici. Nel 2000 c’è il tentativo fondamentalmente riuscito di Alleanza Nazionale (AN), – ovvero gli ex missini, che sono il partito che eredita il fascismo – di introdursi nella vita politica del paese, quindi, di legittimarsi nell’arco costituzionale, nella dialettica parlamentare. Si fanno perciò delle scelte che tengono conto delle diverse sensibilità politiche”. Inizialmente, come spiega Pavan, la prima proposta che parti dai Democratici di Sinistra (DS), era di non istituire il 27 gennaio (giorno in cui nel 1945 vennero liberati i campi di concentramento nazisti) come Giorno della Memoria, ma di scegliere una data che avesse una risonanza per la storia italiana della Shoah.

Quel giorno è chiaramente il 16 ottobre, il giorno del rastrellamento del ghetto di Roma avvenuto nel 1943. “Venne condotto principalmente dai nazisti, ma non solo. Riguarda un fatto del nostro paese, ricorda un capitolo profondamente italiano della Shoah. Un’omissione che influenza anche le scuole, spostando la ricerca verso una storia che non deve avere al centro la Shoah in Italia, le leggi razziali fasciste, ma Auschwitz. Sono scelte che hanno poi delle conseguenze”.