di Ilaria Myr
«I bambini possono aiutarsi, consolarsi e diventare grandi utilizzando le loro potenzialità, le loro risorse. Sono ancora privi di esperienza, è vero, ma la vita s’impara solo vivendo». È racchiuso in questa semplice frase il significato più profondo del nuovo libro di Silvia Vegetti Finzi, intitolato Una bambina senza stella, edito da Rizzoli: un testo molto particolare che nasce come autobiografia dell’autrice, bambina ai tempi delle leggi razziali e della Seconda guerra mondiale, ma che fin da subito lascia spazio a considerazioni di carattere psicologico, utili a qualsiasi genitore.
Un libro a più voci: quella della Silvia bambina, figlia di padre ebreo, che racconta solo quel poco che ricorda della propria infanzia in quei terribili anni come fossero lampi di memoria, e quella della nota psicoterapeuta, che proprio partendo da quei flash di “bambina senza stella”, riflette su atteggiamenti universali tipici dell’infanzia.
Così spiega Vegetti Finzi, seduta nel salotto di casa sua, e la voce del suo libro si mescola con quella della sopravvissuta alla persecuzione razziale e alla guerra, e con la testimonianza di ciò che è stato, nella convinzione che sia importante fare capire ai giovani che quello che è successo allora riguarda tutti.
Dal particolare all’universale
«Quale bambino non ha mai provato durante il corso della sua vita la solitudine, l’abbandono, la paura, l’incomprensione? – spiega Silvia Vegetti Finzi nel corso dell’intervista al Bollettino -. Certo, quella in cui ho vissuto io era una situazione estrema, ma i meccanismi psicologici che essa ha messo in atto non cambiano, così come le risorse con cui il bambino affronta ciò che gli succede». Un aspetto, quest’ultimo, che oggi si tende a sottovalutare, iper-proteggendo i figli, e non lasciando loro possibilità di provare dolore e frustrazione, vivendo quasi al posto loro per paura che si facciano male. «Pensi solo alla frase che molti genitori dicono ai figli “andiamo a fare i compiti” – commenta l’autrice -, a quanto essa è eloquente di come ci si voglia sostituire alla loro responsabilità, non lasciandoli affrontare il minimo rischio. Ma come dice bene la nota psicologa Françoise Dolto, “il compito dei genitori non è di rendere felici i figli – certo, se lo sono tanto meglio -, ma di educarli”».
Ma i bambini hanno risorse immense, che permettono loro di cavarsela: la fantasia prima di tutto, che li aiuta a evadere dalla realtà, pensando, come la bambina del libro, di essere Shirley Temple oppure la “faccetta nera” dello spettacolo delle piccole italiane (lei, così bionda con gli occhi azzurri!). E poi un profondo senso di realismo e una grande capacità di adattamento: perché, come si legge nel libro, “appurato che la realtà è immodificabile, rinunciano all’opposizione e accettano una impari tregua”.
Ma ci sono anche l’ironia e il gioco, e, soprattutto, la vitalità e l’allegria del bambino, che cerca di scherzare anche in momenti difficili.
Tutti questi aspetti si ritrovano nella storia della protagonista, volutamente chiamata la “bambina”, che si trova a vivere i primi cinque anni della sua vita lontana dai genitori. «Mio padre era un ingegnere e aveva trovato un lavoro in Etiopia nella costruzione delle linee telegrafiche – spiega l’autrice -. Lì era nato mio fratello, ma per partorire me i miei genitori avevano deciso di venire in Italia, per poi tornare in Africa».
La bambina senza stella
Era il 1938. Con la promulgazione delle leggi razziali, il padre, ebreo, torna subito in Etiopia: la madre deve seguirlo dopo poco con il figlio, la neonata e una balia. Ma la balia non si presenta alla partenza, e la madre decide di lasciare la piccola da alcune zie a Villimpenta, in provincia di Mantova, in cui sono ambientati i ricordi dei primi anni di vita della bambina. Si rivedranno solo cinque anni più tardi, quando la madre farà ritorno con le navi bianche, che sotto la dominazione inglese riportavano in patria dall’Africa le donne e i bambini. Si trasferiscono tutti a Manerbio, nel bresciano, dove la mamma ha ottenuto una supplenza come maestra elementare: lì sono accolti con diffidenza, trattati come “forester”, forestieri, e per di più ebrei, come rivela il cognome Finzi. Come si dice nel testo, “la bambina non sa, ma come un animaletto, annusa il pericolo incombente: sperimenta la condizione di apolide che, non avendo un luogo dove consistere, fa perno su se stesso, si accoglie, si basta”.
Isolamento, solitudine, spaesamento sono i sentimenti dominanti in questi anni nella bambina, che essendo una “mezzosangue”, nata da padre ebreo e mamma ariana, percepisce, pur essendo all’oscuro di tutto, di essere espropriata della propria identità.
E poi arriva la Liberazione, e dopo qualche tempo l’incontro con il padre. E infine, come descritto nell’ultimo capitolo, la scoperta della verità: sotto un cumulo di biancheria trova delle foto dei campi di sterminio scattate dai liberatori. “Capisce allora perché i genitori, quando parlavano del nonno e degli zii scomparsi, obbligassero lei e il fratello a uscire”. La grande Storia si collega con la piccola storia individuale della bambina, che ha guardato e vissuto tutto dal basso, come solo i bambini possono fare.
Silvia Vegetti Finzi, Una bambina senza stella, Rizzoli, pagg. 229, 18,50 euro