L’ebraico, lingua emancipatrice? I casi di Anton Shammas e Sayed Kashua, scrittori arabi che hanno scelto l’ebraico

Libri

di Cyril Aslanov

[Ebraica. Letteratura come vita] Oggi vorrei parlare di due autori arabi israeliani che hanno scelto la lingua ebraica per scrivere la loro opera letteraria. Il primo è Anton Shammas, nato nel 1950 nel villaggio greco-cattolico di Fassuta vicino ad Har Meron. Il secondo è Sayed Kashua, nato nel 1975 in una famiglia musulmana di Tira (vicino a Kfar Saba). Entrambi hanno studiato all’Università ebraica di Gerusalemme e sono perfettamente trilingui (arabo, ebraico, inglese).

Il primo ha cominciato la sua carriera letteraria con due raccolte di poesie in ebraico, prima di pubblicare nel 1986 il romanzo Arabeskot (Arebeschi) considerato il suo più grande successo. Questo libro, che parla in ebraico dell’esperienza araba israeliana, è diventato il simbolo dell’identità spesso spaccata dei cittadini arabi di Israele, strappati fra la lealtà al paese di cui costituiscono un’importante minoranza (circa 20% della popolazione israeliana) e l’appartenenza al mondo arabo. Il titolo Arabeschi non è soltanto un’allusione autoriflessiva alla tematica araba israeliana. La parola “arabesco” si riferisce anche agli intrecci che strutturano la concatenazione degli episodi di quest’autofinzione, in grande parte ispirata dall’esperienza personale dell’autore.

Sayed Kashua è più conosciuto dal pubblico italiano poiché cinque delle sue opere sono state tradotte in italiano (sempre da Elena Loewenthal). Il suo romanzo più famoso è Aravim roqdim (Arabi Danzanti) pubblicato nel 2002 nell’originale ebraico e nel 2003 in traduzione italiana. Come Arabeskot di Anton Shammas, si tratta di un’autobiografia romanzata che descrive le contraddizioni della condizione araba israeliana. Nel 2014 il romanzo Arabi Danzanti ha ispirato una coproduzione cinematografica israelo-europea firmata dal regista Eran Riklis e intitolata in vari modi a seconda dei paesi: in Israele si chiama Zehut sheula (“identità imprestata”) e in molti altri paesi ha conservato il titolo Arabi Danzanti.

Per questi due autori, la scelta dell’ebraico è ricca di implicazioni pragmatiche o simboliche. Come prima cosa è stata dettata dal fatto che, a un certo punto della loro formazione scolastica, entrambi si sono ritrovati nelle scuole israeliane ebraiche, a differenza di molti allievi arabi israeliani che studiano fino all’età di 18 anni nel sistema educativo in lingua araba. Eppure, vi è forse un’altra ragione, più profonda, per spiegare questa predilezione per la lingua ebraica da parte di due scrittori arabi israeliani. A differenza di Emile Habibi, un altro autore arabo israeliano, rimasto fedele alla lingua araba, Shammas (che fra l’altro tradusse alcune delle opere di Habibi in ebraico) ha voluto esprimere attraverso il mezzo linguistico ebraico la condizione, spesso sentita come paradossale, dell’arabo israeliano. Come diceva il poeta israeliano druso di espressione araba ed ebraica Salman Masalha nel film documentario di Nurit Aviv, Mi-safa le-safa (“Da una lingua all’altra”) del 2004, per gli autori arabi israeliani, la scelta dell’ebraico rifletterebbe la volontà di dimostrare che l’ebraico non è il monopolio dei cittadini ebrei dello Stato ebraico.

E poi, se allarghiamo la nostra prospettiva al mondo arabo in generale, al di là della situazione particolare dei due milioni di cittadini arabi di Israele, l’ebraico, lingua orientale occidentalizzata e illustrata da una letteratura molto emancipata ed emancipatrice, possiede un potere di attrazione che l’arabo standard (versione modernizzata dell’arabo classico) non riesce ad attingere (a meno di avvicinarsi alla dimensione dialettale come faceva il grande scrittore egiziano Nagib Mahfuz). Per Shammas e Kashua l’ebraico permette di liberarsi dalla solennità pomposa dell’arabo letterario anche modernizzato e di usare una lingua dove la variazione fra i vari registri stilistici è più usuale che nel quadro della diglossia caratteristica del mondo arabo. Questo vantaggio associato all’uso dell’ebraico si potrebbe paragonare alla scrittura in francese nelle opere dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun o dei numerosissimi rappresentanti della letteratura algerina francofona, benché nel loro caso la scelta del francese sia anche dovuta al massimo divario fra l’arabo standard e i dialetti arabi magrebini.

Questa bella storia dell’adozione dell’ebraico da parte di due talentuosi scrittori arabi israeliani finisce in un modo che rimette in questione il messaggio apparentemente ottimistico contenuto nella possibilità che un arabo israeliano possa diventare un grande autore della letteratura ebraica. Sia Shammas che Kashua hanno lasciato Israele per insegnare nel sistema universitario statunitense: Shammas sin dal 1987 e Kashua a partire dal 2014. Questa scelta esistenziale da parte di due autori arabi israeliani, incoronati dal successo in qualità di scrittori in lingua ebraica, fa retrospettivamente pensare che la loro carriera è un cul-de-sac o un caso eccezionale.