Negli ultimi anni l’editoria italiana ha pubblicato molti libri di argomento ebraico: non solo le case editrici specializzate, come l’ottima collana di Giuntina, ma anche le case editrici generali; non solo romanzi israeliani e ricostruzioni storiche e libri sul conflitto medio-orientale, ma anche opere che cercano di offrire alla cultura europea qualche frutto indiretto di quel grande tesoro che è il pensiero ebraico, difficilmente raggiungibile di prima mano a chi non possa basarsi una formazione talmudica, che oggi pochi ebrei possono vantare.
Per chi come me sia uno studioso della riflessione teorica occidentale su temi come la filosofia, il linguaggio, la comunicazione e le scienze sociali, e al tempo stesso sia fiero del suo ebraismo, anche questi frutti isolati sono uno stimolo straordinario, sebbene sempre di seconda mano rispetto alle opere dei rabbini e dunque un po’ casuali e sconnessi. Ma io sono convinto che ogni ebreo dovrebbe interessarsi alla sua eredità di un patrimonio di pensiero così ricco, originale, specifico e di conseguenza trasversale rispetto alle tradizionali categorie del sapere europeo, come filosofia, teologia, diritto.
Per questa ragione ho pensato che valesse la pena di raccogliere qualche appunto e segnalare delle letture di questo tipo, frammenti di pensiero ebraico, anche quando sono spigolature, sintomi che appaiono in qualche libro non ebraico: non recensioni ma segnalazioni, spunti di pensiero.
Per esempio, Boringhieri, nella sua nuova collana “incipit” dedicata a scritti molto brevi, ha appena pubblicato il testo di una conferenza del 1915 di Chaim Nachman Bialik, intitolata Halachah e Aggada che ebbe la sorte di essere tradotta quasi subito da Scholem in tedesco e di segnare profondamente il pensiero di Walter Benjamin sull’ebraismo. Bialik è spesso descritto come “il padre della letteratura ebraica moderna” o “il poeta nazionale di Israele”, pur avendo scritto in yddish prima che in ebraico ed essendo morto nel ’34, molto tempo prima della fondazione dello Stato ebraico. Di lui si può leggere in italiano Nella città città del massacro (Il Melangolo 1992), un breve e terribile poema sul progrom di Kisinev in Bessarabia (oggi Moldovia) e La tromba, una raccolta di racconti pubblicato da Giuntina nel 2003.
Quel che ci interessa qui non sono le sue doti letterarie, ma la sua analisi sulle “due forme concluse, due stili antitetici” che caratterizzano il pensiero e forse la vita ebraica da sempre, l’una “dolce” l’altra “dura”, espressione della “misericordia” e del “rigore”. Il punto di Bialik è che esse sono realmente complementari, non semplicemente accostate come due strati delle opere rabbiniche. La Halakah, disciplina giuridica dell’esistenza ebraica, è “figura sensibile e definita della vita concreta”, “capace di forma e bellezza corporee”, perché vi si potrebbe leggere l’esistenza concreta del popolo ebraico nei suoi modi originari, e perciò sarebbe “la continuazione necessaria, il ‘frutto tardivo’ della Aggadah”, la sua formalizzazione. Mentre quest’ultima, narrazione e leggenda, commento o indagine sul senso che sia, “se non tende alla Halakah è sentimentale e alla fine svanisce”.
Educato tradizionalmente allo studio del Talmud, attratto dalla modernità, sionista, in procinto di fare la sua Alià in Israele, Bialik in questa conferenza si pone in anticipo il problema della ricostituzione di una cultura nazionale ebraica, di una letteratura per il popolo giunto a una svolta decisiva della sua storia: come ai tempi di Esra e Nehemia, ci lascia capire. Lui, scrittore, risponde alla sua stessa questione affermando che le narrazioni senza legge non bastano, che corrono il rischio dell’insignificanza e del sentimentalismo: “Uno dice: ‘Io conosco solo Aggadah’; si guardi però questa sua Aggadah: è un fiore senza frutti. A chi somiglia costui? a chi dice: ‘Colgo i fiori, non voglio i frutti.’ Alla fine non avrà più nemmeno i fiori, perché se non c’è frutto non c’è seme e se non c’è un seme come potrebbe nascere un fiore?”
Richiesta dura e che mette in causa buona parte dell’ebraismo contemporaneo, di fatto molto più desideroso di riconoscersi nella nostra lunga e ricchissima aggadah collettiva che disposto a dedicare attenzione all’halakah e alle sue complessità giuridiche (non parliamo della sua attuazione pratica…), ma risposta lontana da ogni tranquillizzante conservazione dei costumi rispettosi ma fossilizzati dei ghetti e degli Stehtl: “un ebraismo tutto di Aggadah è come un metallo incandescente che non viene raffreddato. L’aspirazione dei cuori, la buona volontà, l’elevazione dello spirito, l’amore interiore, sono cose belle e piene di significato, quando si concludono in azione, azione dura come il ferro, obbligo severo […] Ci siano date forme in cui versare la nostra fluida e torbida volontà per darle un’impronta netta e duratura. Abbiamo sete di fatti. Abituiamoci nella vita più all’azione che ai discorsi, nella letteratura più all’Halakah che all’Aggadah”. Così a Mosca nel 1915, quando fu tenuta questa conferenza, e a Berlino nel ’17 quando la provocazione di Bialik colpì alcune delle più grandi menti ebraiche del secolo. Ma oggi, dopo novant’anni e dopo tanti fatti, terribili e bellissimi, c’è ancora questa sete? C’è ancora spazio per lavorare a una forma caratteristica dell’ebraismo contemporaneo?
A partire dalla polemica sul processo ad Eichmann e sulla sua definizione della “banalità del male”, Hannah Arendt ha una figura che rimane nel mondo ebraico più controversa di quella di Bialik, ma certamente assai più nota anche all’esterno. Sempre di più la giovane ebrea amante di Heidegger risalta come una delle grandi figure della filosofia del Novecento. Einaudi pubblica delle sue riflessioni formulate in un corso universitario a metà degli anni Sessanta, sul modo in cui sia possibile fondare la morale. C’è poco di esplicitamente ebraico in esse, se non la puntigliosa rivendicazione delle fonti bibliche di pensieri e principi morali che normalmente si attribuiscono al cristianesimo. Le citazioni vengono soprattutto da Platone, Kant, Agostino. E però io riconosco una autentica aria di famiglia nel tema sollevato, che è quello di quale sia la regola della morale (o la radice della giustizia, in termini più chiari), e anche nella risposta che viene identificata in primo luogo con il principio secondo cui è meglio subire il male piuttosto che compierlo. Il fondamento di questo principio a sua volta riposa sul fatto di essere sempre osservatori di noi stessi e di restare dunque legati alle nostre eventuali azioni malvagie: la coscienza è questa osservazione di sé, che dovrebbe renderci impossibile agire in maniera che reputiamo ripugnante. La moralità è prima di tutto lucidità, consapevolezza, rifiuto dell’autoinganno. L’argomentazione di Arendt è complessa, si estende al problema della volontà, che a sua volta spesso si divide e non è capace di volere davvero ciò che vuole. Ma il rapporto fra lucidità intellettuale e integrità morale, l’idea che i buoni siano innanzitutto giusti, mi sembra profondamente radicata nella tradizione del pensiero ebraico.
Strane vie dell’ermeneutica biblica. Leggo in ritardo nella postfazione dell’eccellente filosofo del linguaggio Daniele Gambarara a un libro di Paolo Virno dal titolo ingannevolmente evangelico (Quando il verbo si fa carne, Bollati Boringhieri, 2003) una considerazione che dovrebbe dimostrare che “il linguaggio non è comunicazione” ma “riconoscimento”: “Quando [il tretragramma traslitterato nel testo, UV] conduce dall’uomo tutti gli animali selvaggi e gli uccelli del cielo, per vedere che nome avrebbe dato a ciascuno, l’imposizione dei nomi non è fine a se stessa. Non è bene che l’uomo rimanga solo: ciò che egli cerca attraverso il linguaggio è un compagno che possa stargli a fronte (kenegdô), che sia pari a lui e gli corrisponda. E lo trova non negli animali non umani a cui pure a dato il nome, ma in quella che viene tratta da lui e che per questo egli chiama ‘isshâh (virago de viro), donna”. Poi quello “stare di fronte” tornerà altre volte in questo saggio, con diverso valore esemplificativo. Quel che è interessante, in queste righe, non è l’interpretazione, che naturalmente è una fra le molte possibili, ma l’importazione incidentale e quasi ovvia in un libro di filosofia del linguaggio tutto interno alla tradizione europea, di un frammento di ermeneutica ebraica.
Chaim Nachman Bialik, Halakah e Aggadah, Boringhieri (a cura di Andrea Cavalletti, traduzione di Davide Messina, pp. 75, 7,00)
Hanna Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi (Prefazione di Simona Forti, traduzione di Davide Tarizzo, pp. 112 8,50)