di Rossella De Pas
Uno su mille è, più o meno, la proporzione fra ebrei e italiani all’avvento delle leggi razziali nel 1938. Ed è anche il titolo della riedizione Garzanti del bel libro di Alexander Stille che narra le tumultuose vicende di cinque grandi famiglie ebraiche italiane. Cinque famiglie ma anche cinque modi di versi di porsi nei confronti del Duce e del regime. In un’accurata ricostruzione storica, Stille – nato nel 1957, giornalista e docente di giornalismo presso la Columbia University- affronta ovviamente anche la peculiarità della realtà italiana rispetto a quella francese o tedesca negli anni prima del Secondo conflitto mondiale.
In effetti la situazione italiana era davvero molto diversa da quella di tutto il resto d’Europa: il fascismo era rimasto al potere 16 anni prima di dichiararsi antisemita, permettendo una lunga coesistenza tra ebrei e fascisti e proprio questo stretto legame influenzò profondamente la vita dei singoli: “Cambiò il senso di identità nazionale e religiosa degli ebrei, ne influenzò la decisione se rimanere o emigrare dopo il 1938 e, durante l’occupazione tedesca, alterò la loro percezione dei pericoli che correvano e il modo in cui reagirono ad essi…”.
Stille sceglie di costruire questo libro partendo dalle esperienze personali soggettive dei membri di alcune famiglie ebraiche, così peculiari ma allo stesso tempo simili a quelle di altre famiglie dell’epoca: gli Ovazza e i Foa di Torino; i Di Veroli di Roma; i Pacifici e i Teglio di Genova; gli Schonheit di Ferrara.
Gli Ovazza di Torino erano un’importante famiglia della borghesia ebraica che si arricchirono nella Torino cosmopolita di inizio secolo, sicuramente più legati al governo italiano che alle proprie origini ebraiche, di cui però mantenevano alcune tradizioni.
Ettore Ovazza, nato alla fine dell’800, era uno dei principali banchieri piemontesi e, dopo aver combattuto nella Grande Guerra, aderì attivamente al Fascismo tra il 1919 e il 1920, partecipando alla fondazione del Fascio Torinese ed all’organizzazione della Marcia su Roma.
Nel maggio del 1934 fondò a Torino “La Nostra Bandiera”, dalla chiara connotazione antisionista, promotrice della sempre più forte partecipazione della parte “sana” dell’Ebraismo al Regime Fascista.
Il suo attaccamento all’ideologia fascista e, in particolare, alla figura del duce rimase viscerale anche dopo la promulgazione delle leggi razziali; scrisse a Mussolini il 15 luglio 1938, il giorno successivo alla pubblicazione del Manifesto degli Scienziati Razzisti: “Noi rimaniamo oggi silenziosi di fronte al pubblico col nostro dolore…Ma se il mio animo è dolente – con quanti altri – io Vi saluto romanamente e auspico alla Vostra Alta Missione il glorioso trionfo.”
Come ben sottolinea Stille, Ettore rimase fino alla fine (fu ucciso insieme alla sua famiglia ad Intra da soldati tedeschi) l’esempio dell’ebreo fascista: “Per quanto la perdurante fede di Ettore nel fascismo possa sembrare folle, forse non è sorprendente alla luce delle sue esperienze passate. L’attività politica aveva costituito il fulcro della sua vita per vent’anni…Rinnegare il fascismo avrebbe significato rinnegare tutto ciò in cui aveva creduto e per cui si era battuto…”.
Di posizione diametralmente opposta a quella degli Ovazza, i Foa si schierarono fin dall’inizio contro il fascismo; nel 1933 Vittorio entrò a ventidue anni in Giustizia e Libertà, la maggiore organizzazione italiana antifascista non marxista, con una rilevante componente ebraica.
Se Ettore Ovazza può essere considerato il prototipo dell’ebreo fascista, Vittorio Foa senza dubbio può ben rappresentare l’ebreo antifascista: fu arrestato all’età di 25 anni a Torino in seguito alla segnalazione di un confidente dell’OVRA nel 1935; appena rilasciato, nel 1943, prese parte alla Resistenza, alla quale sopravvisse.
Rispetto all’emancipata e cosmopolita Torino, il ghetto di Roma dove vivevano i quattro fratelli Di Veroli era un mondo chiuso che ruotava intorno alla famiglia, al lavoro e alla sinagoga, dove non c’era spazio per la politica.
Tre dei quattro fratelli (Giacomo, Umberto ed Attilio) si iscrissero al partito fascista, più che altro perché con la tessera del partito era più facile lavorare e provvedere alla famiglia. Il fratello maggiore Enrico era massone ma non si espose mai pubblicamente.
Come nelle altre città, anche a Roma gli ebrei non compresero la pericolosità della situazione in cui si trovavano: quando, dopo l’armistizio, i tedeschi conquistarono la città e vi riportarono l’ordine, gli ebrei pensarono di essere scampati al pericolo.
Ma questa era solo un’illusione: la retata del 16 ottobre colse i Di Veroli di sorpresa: “Il totale degli arrestati nelle famiglie dei quattro Di Veroli fu di due figlie, due cognati e cinque nipoti. Complessivamente quel giorno furono arrestati a Roma quarantuno Di Veroli, tutti parenti più o meno stretti…Del nucleo familiare originale composto da trentatré persone, i quattro fratelli più i loro figli una decina furono deportati ad Auschwitz o uccise alle Fosse Ardeatine. ”
La realtà della città di Genova era particolare nel panorama italiano. Essendo il maggiore porto nazionale, la città era diventata una sorta di calamita per chi cercava un modo sicuro per lasciare l’Europa e, incredibilmente, i fascisti permisero alle organizzazioni ebraiche di assistenza (Comasebit prima, Delasem poi) di agire indisturbate nel corso della campagna razziale: vennero salvati circa 5000 ebrei che, altrimenti, sarebbero rimasi intrappolati durante la guerra.
La storia della Delasem contrasta nettamente le accuse rivolte agli ebrei di non aver reagito alla minaccia nazista e di essersi lasciati trascinare passivamente nelle camere a gas.
Dopo l’armistizio, la struttura della vecchia Delasem, diretta da ebrei, era crollata quasi totalmente e nella fase clandestina sopravvisse grazie a conventi, monasteri e parrocchie che nascondevano ed aiutavano gli ebrei.
I tre uomini che Stille scegli come simbolo della resistenza comune ebraica e cristiana al nemico tedesco sono “il rabbino (ndr Riccardo Pacifici”), il prete (ndr Don Repetto) e l’aviatore (ndr Massimo Teglio”)”.
Le condizioni di vita nella città di Ferrara erano molto simili a quelle di tante piccole città di provincia, come Mantova, Parma, Padova, dove gli Ebrei erano non solo tollerati dal resto della popolazione italiana ma spesso completamente integrati, se non addirittura assimilati.
Nello specifico, a Ferrara la vita ebraica era stata sempre positiva fino a quando, nel 1597, la città non era stata inglobata dal Vaticano; gli anni di vessazioni, durati fino all’apertura del ghetto nel 1859, avevano causato una forte diminuzione demografica (da più di 2.000 persone a 1.200).
Da allora era proseguito il processo di reintegrazione nella società ferrarese, che non si era interrotto nemmeno con l’avvento del Fascismo; molti ebrei erano addirittura fascisti: alcuni per convinzione, altri PNF (Per Necessità Familiare).
Le leggi razziali cambiarono irrimediabilmente le condizioni di vita anche se non furono sufficienti a convincere gli ebrei ferraresi a fuggire in cerca di salvezza.
Gli Schonheit (il padre Carlo, la madre Gina ed il figlio Franco), come racconta Franco, “si sono lasciati arrestare in casa. Li avevamo aspettati. Sapevamo che loro sarebbero arrivati il giorno in cui gli ebrei non fossero stati liberi di stare in casa propria ma avessero dovuto essere rinchiusi in “campi di raccolta”, come li chiamavano”.
Ben presto si accorsero che la realtà che li aspettava era però ben diversa dalle previsioni, come ricorda Franco: “L’arrivo a Fossoli è stato uno “shock” duro, soprattutto per me e mamma. Guardare fuori dal finestrino del treno e vedere le divise delle SS…Avevamo pensato che Fossoli sarebbe stato un campo italiano…Lei non sapeva ancora che eravamo già delle bestie.”.
E dopo Fossoli, Ravensbruck per Gina e Buchenwald per gli uomini.
L’intera famiglia sopravvisse e, riunitasi a Ferrara dopo la Liberazione, ricominciò la propria vita come prima della guerra, ma le esperienze vissute hanno lasciato un segno profondo nei loro animi, come sottolinea Franco:
“Anche se sono ritornato in Italia, il mio senso di essere italiano è cambiato. Non mi riconosco molto come italiano…il problema Italia non mi dice più niente. Se fosse facile, vivrei molto volentieri gli ultimi anni della mia vita in un paese diverso dall’Italia.”