di Ugo Volli
[Scintille: letture e riletture] L’ebraismo non è una religione; o piuttosto bisognerebbe dire che l’idea di religione, intesa nel senso più diffuso e di origine cristiana come una “fede” o una “confessione”, non si adatta bene a descrivere che cos’è l’ebraismo. Essere ebrei vuol dire invece appartenere a una “forma di vita” collettiva che ha certamente al suo centro il rapporto con la divinità (e dunque quel che si usa chiamare religione), ma che comprende anche i rapporti interpersonali, cioè il diritto e la politica, l’identità collettiva, e fornisce anche indicazioni su come dev’essere una buona vita: non solo rispetto ai doveri nei confronti degli altri, ma anche alla propria esistenza interiore e perfino alla salute e al costume.
Vi è spazio dunque per tutto quel che bisognerebbe chiamare morale, non solo alle regole “nobili” come la proibizione della violenza o l’amore del prossimo, ma anche ad aspetti più quotidiani. Israele del resto condivide questa intuizione con le grandi culture antiche; basta pensare al significato delle parola latina mos, da cui morale, e ethos, da cui etica: entrambe richiamano costume, stile di vita, abitudine, modo di fare. Separare una dimensione intima della fede dalla gestione quotidiana della vita è una delle mosse caratteristiche che differenziano l’approccio cristiano da quello ebraico. Per l’ebreo è importante innanzitutto agire in maniera giusta e assumere la responsabilità collettiva del comportamento, tener conto sempre di essere parte di un popolo, responsabile con tutti gli altri. È su questa base che va letto il bel volumetto pubblicato da Giuntina delle Norme di vita morale (come Massimo Giuliani ha tradotto l’ebraico “Hilkhot De’ot”).
Si tratta di un capitolo del Mishné Torah (“Ripetizione della Torah”), la grande opera di codificazione giuridica di Maimonide (o piuttosto Rambam, secondo la sigla del suo nome Rabbi Moshè ben Maimon), il più grande filosofo ebraico del Medioevo e autorevolissimo interprete della tradizione. Come scrive Rav Riccardo Di Segni nella prefazione, “de‘ot dovrebbe indicare i differenti “caratteri” […] La possibilità (necessità) di migliorare il carattere (o la personalità o i temperamenti) sposta l’orizzonte della trattazione dalla semplice psicologia alla morale, perché ciò che interessa a Maimonide […è] indirizzare le persone a un corretto equilibrio tra passioni e pulsioni opposte, e non per una generica ricerca di armonia, ma come valore religioso conforme alla Torà”. Ecco perché nell’ambito della grande codificazione religiosa di Rambam compaiono queste norme (che talvolta sono abbastanza generali e vaghe da apparire piuttosto come consigli) su temi a prima vista pochissimo “religiosi” come la gestione delle emozioni, il modo di trattare gli altri, le abitudini alimentari (non le norme sugli alimenti proibiti, ma quando mangiare, quanto pesante eccetera), sulla vita sessuale (di nuovo, non le norme sulle relazioni proibite, ma quando consumare i rapporti matrimoniali, eccetera) e perfino sull’abbigliamento adatto in particolare a studiosi e rabbini.
Il trattatello di Rambam non va usato come una codificazione da applicare in quanto tale, perché le regole stringenti della vita ebraica sono altre e perché è evidente il riferimento a una società parecchio diversa dalla nostra. Ma è di lettura molto interessante, sia perché applica costantemente una via di “giusto mezzo” che il grande dotto spagnolo ricava dalla tradizione aristotelica, applicandola all’ebraismo, e oggi molti se ne sono scordati. Sia perché ne possiamo trarre un’idea molto stimolante di come gli apparisse integrale l’ebraismo, norma di vita da applicare continuamente. Sia infine perché in filigrana si intravvedono i contorni di una società ebraica di otto secoli fa, con le sue abitudini, le sue difficoltà, la sua identità radicata: per certi aspetti vicina, per altri lontanissima.