“L’ultima nota”: le sofferenze dei musicisti internati nei lager (Auschwitz, Terezin, Dachau, Majdanek)

Libri

di Roberto Zadik

Musica per salvare la vita o come colonna sonora di morte e distruzione? Il libro di Roberto Franchini “L’ultima nota” svela le sofferenze di compositori e musicisti ebrei internati nei lager, da Auschwitz a Terezin, da Dachau a Majdanek

La Germania è sempre stata una nazione dalla solida tradizione musicale, patria di geni musicali come Beethoven e molti altri, tra i quali esponenti di famiglie ebraiche e totalmente assimilati – se non convertiti –  come Mendelssohn o Offenbach. Ma durante l’incubo della Shoah che cosa è successo ai musicisti, ai compositori e agli strumentisti ebrei deportati nei lager?

La musica era “strumento per i carnefici o sollievo per i prigionieri? Sinfonia di morte o elegia di pace dell’animo?” Su questi interrogativi complessi si interroga il libro di Roberto Franchini L’ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti che si addentra profondamente e con estrema lucidità nei meandri della musica e dei compositori ebrei (e non solo) “dentro l’universo concentrazionario dei lager”. Svelando al lettore aspetti inediti di questo argomento, Franchini, giornalista, scrittore ed esperto di storia della musica, affronta le tematiche più svariate. Dal ruolo della musica per alleviare il dolore o per accentuarlo, alla sofferenza dei musicisti obbligati dagli aguzzini dei lager a suonare e cantare a comando e sottoposti a continua minaccia, all’importanza delle Kapellen ovvero le orchestre che si formavano nei vari campo di concentramento.

Da Auschwitz, a Dachau, a Buchenwald, non c’erano solo gruppi impegnati nell’esecuzione di brani di musica classica, ma anche musica da camera e jazz “che mattino, mezzogiorno e sera – come racconta Franchini – accompagnavano la partenza e il ritorno dei Kommandos, le squadre di lavoro”.

A volte la musica aveva un ruolo spettrale e in netta contraddizione con le atrocità compiute nel campo; serviva a camuffare quanto stava accadendo. Nel lager di Treblinka, ad esempio, Chil Raichman, uno dei pochi sopravvissuti, racconta che, ascoltando quelle note, “all’arrivo del convoglio nel lager, le persone erano convinte che non sarebbe stato fatto loro alcun male”. La musica faceva da colonna sonora del dolore o della speranza, dell’angoscia o della resistenza psicofisica degli internati, dai musicisti agli ascoltatori, nei vari lager in un Paese in cui a quei tempi vigeva l’assurda contraddizione fra “la musica vietata” come quella dei compositori di origine ebraiche e la musica “imposta” nei campi di concentramento.

Il testo evidenzia vari aspetti assolutamente inediti e sorprendenti del legame fra musica e Shoah, ad esempio che “i prigionieri scelti per diventare parte delle bande o delle orchestre erano dei privilegiati, talvolta esentati dal lavoro fuori dal lager, faticoso al limite della distruzione, e spesso ricevevano un po’ di cibo in più”. Eppure, nonostante questi esigui vantaggi, l’autore rende noto che “molti di loro non sopravvissero ai campi di sterminio, furono mandati nelle camere a gas o vennero distrutti da qualche malattia”.

Dopo la prima parte generale riguardante al ruolo della musica e dei musicisti ebrei nei lager, nella seconda parte del testo, l’autore analizza i vari autori singolarmente, raccontandone storia e peculiarità caratteriali e artistiche. Come quella dell’ebreo polacco Simon Laks, che divenne direttore dell’orchestra di Auschwitz, e del violinista greco Jacques Stroumsa che  “veniva dalla raffinata comunità di Salonicco chiamata ‘la Gerusalemme d’Europa’ in cui vivevano circa 56.000 ebrei e che era musicista e ingegnere” fino ad arrivare al campo di concentramento cecoslovacco di Terezin, a sessanta chilometri da Praga.

Aperto dal febbraio 1942 all’ottobre 1944, Terezin viene definito dall’autore il “supremo inganno nazista”; nacque come un ghetto dalla “frenetica attività culturale” per trasformarsi sempre di più nella terribile “anticamera di Auschwitz”. In quel contesto così spietato spicca la figura del grande compositore Viktor Ullmann che, musicista di altissimo livello, raffinato intellettuale, “trovò a Terezin una vena creativa insospettabile, componendo fra le mura della città fortificata ben 24 lavori. Dopo essere stato molto prolifico e ispirato come solista, critico musicale e organizzatore di concerti “il 16 ottobre 1944 partì da Terezin per Auschwitz e morì quasi certamente due giorni dopo”.

Il testo così versatile e ricco, sia sulla musica concentrazionaria sia sui suoi autori, in uno dei capitoli dà spazio anche ai musicisti italiani nei campi di concentramento come Arturo Coppola, Giuseppe Selmi e il tenore Emilio Jani, ebreo triestino che venne “salvato dalla sua voce”. Infine nelle ultime pagine, si trova un breve elenco delle opere che vennero composte nei lager. Fra i titoli, una delle prime melodie come La canzone dei soldati nella palude oppure le 55 recite di Brundibar composte dal musicista ebreo ceco Hans Krasa e rivelatesi una delle opere più importanti composte a Terezin.

Il libro di Franchini è un affresco globale, emozionante e unico nel suo genere che restituisce al lettore l’angoscia, l’orrore e la violenza dei lager, ma al tempo stesso l’estro, la tenacia e l’umanità di quei musicisti che cercarono bellezza e armonia laddove regnavano follia e distruzione.

Roberto Franchini, L’ultima nota, Musica e musicisti nei lager nazisti, editore Marietti 1820, pp. 328, euro 24,00