Luoghi ebraici: Zachor e zohar, ricordare per risplendere

Libri

di Fiona Diwan

«Perché al liceo nessuno mi ha detto che le sinagoghe concorrono a definire la fisionomia artistica e spirituale dell’Italia?» Dal sentimento di una lacuna, quasi di un “furto” culturale, è partita una missione (fotografica) alla scoperta dei siti, delle tracce, delle dimore del sacro che l’ebraismo ha costruito

I capitelli ornati di menorot della preziosa sinagoga di Ostia antica (scoperta nel 1961 ma risalente al II secolo e.v.). La penombra cangiante della Scola Canton di Venezia. La magia crepuscolare del cimitero di Padova, il fulgore soleggiato delle lapidi del cimitero di Pitigliano, gli splendori lignei delle sinagoghe di Cuneo e Saluzzo… “Esiste tutto questo mondo e nessuno me ne ha mai parlato? Perché al liceo nessuno mi ha detto che le sinagoghe concorrono a definire la fisionomia artistica e spirituale dell’Italia? Perché questa rimozione? Perché questo cono d’ombra?…. La cultura italiana non può considerare la cultura ebraica come un corpo estraneo. Così ho cominciato a entrare nelle sinagoghe, nei cimiteri, nei luoghi simbolici della cultura ebraica italiana, nei loro silenzi e nelle atmosfere trascendenti, nelle tracce talora tragiche che li stipano e cercare di capire cosa trovavo attraverso il mezzo fotografico”. Così scrive Francesco Maria Colombo, in Zohar – Viaggio fotografico nei luoghi della cultura ebraica italiana (a cura di Sandro Parmiggiani, Skira, pp167, 45,00 euro), un volume di immagini e testi pieno di charme e di suggestioni, capace di fondere il fascino dei luoghi con l’artificio visivo e fotografico, catturando dettagli e atmosfere che sono già di per sé un’esperienza emozionale.

 

Personaggio eclettico e poliedrico, Francesco Maria Colombo è abitato da numerosi talenti e da una inguaribile curiosità: scrittore, fotografo, soprattutto musicista e direttore d’orchestra, Colombo ha viaggiato in lungo e in largo in tutta Italia per costruire questo capillare vagabondaggio ebraico, un flaneur e insieme l’esploratore di un arcipelago ebraico italiano unico al mondo. Come il “viaggiatore incantato” di Nicolaj Leskov, F. M. Colombo si è aggirato in questi luoghi sapendo che c’è una linea d’ombra da varcare, una storia ebraica sottaciuta, a volte felice altre volte dolente, una bellezza nascosta che richiede, per essere colta, una peculiare educazione sentimentale e dello sguardo.

Una “cultura ebraica multiforme e in dialogo con i suoi vicini”, una memoria che va custodita e difesa ma soprattutto conosciuta, lo zachor (il ricordare) che si trasforma in zohar (splendore). Un patrimonio artistico da lasciare senza fiato, narrato nella sua unicità: Colombo fotografa con una scrittura di luce, un amore per il chiaroscuro e il contrasto fatti per esaltare gli oggetti e gli ambienti, catturarne il mistero e la storia travagliata ma anche felice.

Tuttavia, in questo suo viaggio nello splendore dell’Italia ebraica (il libro si chiama Zohar, appunto), F. M. Colombo coglie un aspetto sorprendente e fa una scoperta destabilizzante: ovvero che la cultura ebraica è stata per troppo tempo la grande esclusa dal banchetto della cultura occidentale, esclusa ma non assente, anzi nascosta: il convitato di pietra di quel banchetto, l’elefante nella stanza che molti vedono e nessuno nomina. Perché nascosta? Perché oggetto di stigma, portatrice di una colpa originaria, com’è noto. Ma che in verità innerva la cultura occidentale, la attraversa, la nutre, la sostanzia fin dalle lontane scaturigini.

In quasi tutte le culture occidentali la matrice giudaico-cristiana è lì, giace seminascosta nel buio retrobottega del sapere collettivo e delle sensibilità spirituali che hanno costruito il nostro mondo. Inoltre, che cosa c’è di più problematico che riconoscere i propri debiti? Eppure, la “sapienza negata”, la rimozione, se cacciata dalla porta rientra dalla finestra. In questo occidente giudaico-cristiano che oggi rinnega se stesso e si disconosce, il libro e le immagini di F. M. Colombo giungono preziosi più che mai. Un libro che non può mancare su scaffali e tavoli ebraici italiani. Sfogliando le pagine di questo volume non possiamo che stupire guardando la ricchezza del patrimonio della bimillenaria presenza ebraica in Italia. Certo, lo sapevamo già, ma vederlo squadernato con larghezza e sintesi visiva in queste pagine lascia senza parole (brava la Fondazione dei Beni Culturali Ebraici ad aver sostenuto questo progetto, bravo l’editore Skira ad averlo pubblicato).

Un libro che è testimonianza e scoperta. E che forse tenta di dare una risposta a un bisticcio, a una contraddizione. Quella per la quale, da millenni, l’ebraismo si dibatte tra due ingiunzioni contraddittorie: da un lato non costruire cose che possano portare all’idolatria e all’autocompiacimento; dall’altro, costruire cose degne di memoria per glorificare l’opera del Creatore con cose che la riflettano, rallegrarsi della bellezza e pienezza della Sua gloria. Ecco perché, come scrive Alberto Manguel, “sembra profondamente salutare offrire un ricordo di una cultura ebraica multiforme e perseverante nel dialogo con i suoi vicini”. Zachor e zohar appunto, ricordare per risplendere.