di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita] Nella ricchissima galleria di ritratti della Ricerca del tempo perduto (1913-1927), Proust, che non si sentiva formalmente ebreo nonostante la sua origine ebraica da parte materna, dipinge il protagonista ebreo Albert Bloch in un modo che potrebbe fare pensare che il romanziere francese avesse capito in profondità e quasi empaticamente la condizione difficile dell’ebreo emancipato e assimilato che cercava di frequentare ceti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia, facendo finta di adottare i pregiudizi antisemiti della società francese all’epoca del caso Dreyfus (All’ombra delle fanciulle in fiore). La capacità di riconoscere come l’odio di sé si diriga verso categorie di ebrei meno acculturati può essere analizzata come un marchio di antisemitismo da parte del narratore, considerando lo stereotipo secondo il quale gli ebrei sarebbero gli artefici della persecuzione di cui soffrono. Tuttavia, da Proust, la transizione dal narratore all’autore e viceversa, è fluida. Come il narratore allude in un brano famoso della Prigioniera (La Prisonnière), l’autore e il narratore portano lo stesso nome di Marcel. Questo rende difficile la separazione fra l’autore Proust e la voce narrante della Ricerca. Quindi è probabile che Proust stesso si identificasse parzialmente con Bloch, non necessariamente per quanto riguarda le proprie radici ebraiche, bensì nel suo modo di autoflagellarsi per difendersi contro eventuali attacchi.
Si potrebbe ricostituire un concatenazione di disprezzi: quello dell’aristocratico Robert de Saint-Loup nei confronti del narratore mezzo ebreo se consideriamo l’identità fra l’autore Marcel e l’omonimo narratore; quello di quest’ultimo nei confronti dell’ebreo assimilato Bloch; quello di Bloch nei confronti degli ebrei non assimilati. Del resto, il narratore osserva che la famiglia di Bloch è chiaramente percepita come una tribù ebraica quando entra nel casinò di Balbec (nome fittizio della stazione balneare di Cabourg in Normandia). Questo permette di relativizzare il grado di assimilazione di Bloch, il giovane ebreo pieno di scontento contro i suoi correligionari della rue d’Aboukir (il quartiere dei grossisti in tessile a Parigi) che avevano conservato il loro accento ebraico. In realtà questo è un accento alsaziano come gli ebrei caricaturati da Balzac.
La scena dove Bloch inveisce contro ebrei meno acculturati ed integrati di lui riceve un significato addizionale se si capisce che Proust dipinge un processo di convergenza che mette in comunicazione l’alta borghesia (cristiana o ebraica assimilata) e l’aristocrazia. Da un lato, l’ebreo Bloch è descritto come paradossalmente antisemita; dall’altro, il duca e la duchessa di Guermantes, da cui ci si poteva aspettare che fossero antidreyfusards, come la maggioranza degli aristocratici del tardo Ottocento, fanno recitare delle messe (separatamente e ciascuno a l’insaputa dell’altro) per chiedere a Dio di venire in aiuto al capitano Dreyfus (Sodoma e Gomorra). L’incrocio che mette in contrasto un ebreo che si esprime come un antisemita e un’aristocratica di tradizione antisemita che diventa dreyfusarde è un modo di suggerire la porosità delle frontiere fra i borghesi, che possono essere ebrei assimilati, e gli aristocratici declassati.
La comunicabilità fra i mondi si manifesta in modo emblematico quando Gilberte, figlia dell’ebreo Swan e della demi-mondaine Odette de Crécy, rivela al narratore che la parte di Méséglise (quella di Combray dove si trova la casa di famiglia) comunica con la parte di Guermantes tramite una scorciatoia (La Fuggitiva o Albertina scomparsa). In altre parole, la residenza di campagna di un mezzo ebreo è molto più vicina di quanto si possa pensare al castello dei Guermantes. La convergenza occasionale fra gli aristocratici e gli ebrei si spiega retrospettivamente come l’alleanza di due gruppi odiati dal populismo trionfante di quell’epoca: nella Francia della Terza Repubblica, dove il generale Boulanger aveva quasi perpetrato un golpe (1889); nella Vienna asburgica, dove il feroce antisemita Karl Lueger si fece eleggere sindaco di Vienna nel 1896 a capo di una lista del Partito Cristiano-Sociale d’orientamento chiaramente populista. Francesco Giuseppe fece di tutto per cancellare questa nomina, ma la struttura costituzionale dell’Impero asburgico alla fine della sua esistenza rendeva inefficiente l’opposizione dell’imperatore. Fatto interessante, quest’elezione di Lueger convinse Theodor Herzl dell’impossibilità dell’integrazione degli ebrei nell’Europa che si voleva “illuminata”.
Herzl si era già confrontato con l’odio antisemita della plebaglia francese quando copriva come giornalista il caso Dreyfus a Parigi nel 1894-1895. Il 5 gennaio 1895 il giovane corrispondente della Freie Neue Presse vide dal balcone del suo albergo di fronte alla Scuola militare di Parigi la folla ammassata intorno ai cancelli della corte d’onore dove ebbe luogo la cerimonia di degradazione di Dreyfus. Quei proletari parigini assistettero alla scena gridando “Mort aux Juifs”. La consapevolezza che Herzl ebbe del potenziale antisemitismo del popolino gli fece capire che, per promuovere le sue idee, doveva privilegiare i contatti con gli altissimi ceti della società europea piuttosto che cercare la simpatia delle masse.
Dal punto di vista letterario non è fortuito che Friedrich Löwenberg, il protagonista ebreo viennese di Altneuland, fa un viaggio di 20 anni in compagnia dell’aristocratico tedesco Kingscourt (in realtà Adalbert von Königshoff). Questo viaggio si conclude nel 1923 con la visita allo Stato ebraico già costituito nella Terra d’Israele. Attraverso questa finzione, Herzl espresse l’idea secondo la quale gli amici del popolo ebraico e del progetto sionista sarebbero stati membri dell’alta società, mentre i suoi peggiori detrattori sarebbero provenuti dalla plebe.