di Marina Gersony
Le Melodie ebraiche, scritte da Heinrich Heine ormai prostrato da una paralisi progressiva che lo aveva tenuto per anni inchiodato a letto («un sepolcro di materassi»), è il piccolo gioiello pubblicato da Giuntina a cura di Liliana Giacoponi con la prefazione di Vivetta Vivarelli (Per la traduzione delle Melodie ebraiche è stata usata la traduzione di Giorgio Calabresi, in H. Heine, Romanzero, Laterza, 1953).
Le Melodie sono la conclusione di Romanzero, l’ultima raccolta poetica e per alcuni aspetti il testamento spirituale di colui che è stato definito il primo poeta ebraico moderno di lingua tedesca, nonché il principale del periodo di transizione tra il romanticismo e il realismo. Con queste opere Heine voleva dare voce e corpo al cupo canto di martirio del popolo ebraico e rendere omaggio alla cultura, all’appartenenza e alla religione dei padri. Ma la realtà in cui era immerso era tutt’altro che semplice. Non a caso, secondo alcuni critici, l’opera heiniana rappresenta una sorta di agognato approdo dell’anima dopo i tentativi del poeta di sganciarsi, attraverso la conversione, dal mondo ebraico sentito come impedimento alla piena integrazione nel tessuto sociale tedesco (ciclicamente ostile agli ebrei) e relativa cultura. Il 1825, pochi giorni prima di laurearsi a Gottinga, fu infatti l’anno della sua conversione dall’ebraismo al protestantesimo, senza il quale gli sarebbe stata preclusa la carriera forense.
Vita di un poeta ebreo convertito al protestantesimo
Nato nel 1797 a Düsseldorf da una famiglia di ricchissimi banchieri ebrei, tra cui lo zio Salomon, e di commercianti dalle fortune alterne (il padre era un commerciante di stoffe e la madre, Peira van Geldern, chiamata Betty, apparteneva a un’illustre famiglia olandese), il poeta non si adattò mai davvero a una tradizionale carriera borghese nonostante gli sforzi iniziali. Fu la scrittura lo sbocco fisiologico di questo autore ironico, melanconico, irrequieto e insieme distaccato, refrattario a ogni ricercatezza aristocratica e poco incline al «facilmente comprensibile». La sua produzione letteraria, che si sviluppò nel corso degli anni in una saggistica densa e multiforme, ebbe inizio dopo gli studi di diritto, filosofia e letteratura seguendo le lezioni di August Wilhelm von Schlegel. Di certo furono la formazione in un ambiente aperto alle istanze di rinnovamento conseguenti alla Rivoluzione francese e la cultura illuministica a condurlo a nuove visioni del mondo anche se, come osserva nel saggio introduttivo Liliana Giacoponi, quella di Heine fu un’identità scissa tra ebraismo e germanesimo, mostrando come il rapporto complesso con l’ebraismo abbia comunque caratterizzato la sua opera.
Nelle Melodie ebraiche Heine cerca di far rivivere il mondo degli ebrei spagnoli nell’epoca aurea della cultura ebraica entro la sfera intellettuale araba. Un mondo che lo affascina profondamente e da cui trae linfa ispirante e vitale. A proposito della poesia ebraica che fiorì nella penisola iberica durante il Medioevo, nel 1850 confesserà al critico danese Meïr Aron Goldschmidt: «è la più grande ricchezza che conosco: gli ebrei spagnoli hanno avuto il loro Goethe e Schiller, dei poeti forse ancora più grandi di loro».
Cantando i poeti ebrei di Spagna, come recita la quarta di copertina, Heine riesce a ridare voce a una tradizione millenaria. Sarà dunque proprio il linguaggio della poesia il luogo privilegiato in cui l’ebraismo di Heine troverà una «patria» e un rifugio.
Melodie ebraiche di Heinrich Heine, a cura di Liliana Giacoponi. Prefazione Vivetta Vivarelli; traduzione di Giorgio Calabresi; casa editrice Giuntina (2018); pagg. 216; € 17,00.