di Fiona Diwan
Una famiglia di scrittori:
i Singer nel mémoir romanzato del nipote Maurice Carr
Nei boschi di pini di Swider, in Polonia, l’aria è dolce come il miele. Qui trascorrono le vacanze i membri della famiglia Singer, luogo abituale dove si ritrova anche l’intellighentzia ebraica di Varsavia. Nella stessa dacia, nell’estate del 1926, eccoli riuniti i quattro fratelli Singer, Israel Yehoshua detto Shiya, Yitzchak, Moishele e la primogenita Ester detta Hindele, venuta da Londra per rivedere tutti, compresi i genitori, Batsheva e Pinchos Menachem. Sembra di vederli, seduti a tavola in veranda, di poche parole e avari sorrisi, con Israel-Shiya che scappa altezzoso per meglio concentrarsi e scrivere in una soffitta abbandonata nei dintorni; e il ventenne Yitzchak, diafano e spettrale, che trascorre le sue mattinate tra i rami di un pino, appartato dal mondo, appollaiato là in alto mentre legge in ebraico, polacco, tedesco, yiddish. Una presenza enigmatica quella di Yitzchak, che mette imbarazzo, «il volto emaciato, il cranio bulboso… nello sguardo celeste pallido la dolcezza di una fantasticheria indolente…».
Ma quando scende dal pino, Yitzchak gratifica tutti con le sue prodigiose imitazioni, una verve clownesca che fa sbellicare il vicinato, un dono per lo scherno, la derisione, lo humour che ritroveremo nei romanzi del futuro premio Nobel. E infine, c’è Ester-Hindele, la “reietta” della famiglia, inquieta e smarrita, che patisce l’indifferenza dei fratelli, la gelida presenza anaffettiva della madre Basheve, tanto altera lei quanto affabile e svagato appare il padre. E infine c’è Moishele, il fratello più piccolo, destinato a diventare rabbino, sottomesso alla coercitiva volontà materna, ossessionato dalla penitenza e dal peccato. Su tutti i quattro fratelli Singer, corrono le pennellate del narratore Maurice Carr, il figlio di Hindele: è lui a raccontarci l’incontro con questa sua strana famiglia chassidica, è suo lo sguardo che si posa sugli zii scrittori, aureolati di genio e prestigio già nel 1926, Caino e Abele ironici, consapevoli del proprio talento e unicità, timorosi ciascuno della bravura dell’altro.
Un mémoir in cui Maurice Carr racconta se stesso, il rapporto simbiotico con la madre Esther, il triste disamore tra i propri genitori, la vita grama degli ebrei ashkenaziti a Londra, la guerra. Pagine in cui Carr ci consente di gettare uno sguardo di sguincio sulla famiglia Singer, sull’atmosfera di casa e sul clima che vi si respirava. Un’autobiografia che è anche una preziosa testimonianza (La Famiglia Singer, Tre Editori, pp. 230, 18,00 euro), in cui Maurice recita il ruolo del leggendario haroeh v’lo nireh, il fantasma che vede e non può essere visto. Un libro davvero interessante e peculiare, scritto al verbo presente, arricchito dai ritratti di Lola e Hazel Carr, rispettivamente la moglie e la figlia di Maurice.