di Fiona Diwan
Il capolavoro di Zeruya Shalev affronta il tema degli attentati e le ricadute interiori e familiari
Come liberarci dalla tirannia del passato che troppo spesso sbriciola il futuro? Saremo sempre condannati ad avere nostalgia del prima anche se era fatto di emozioni burrascose e di cattive notizie? Perché succede che il dolore dell’addio è più forte della gioia dell’incontro? Sono queste le domande che si pone Zeruya Shalev, 57 anni, nel suo ultimo romanzo, Dolore. Considerata oggi la “Virgina Woolf” israeliana, tra le grandi figure della narrativa contemporanea, scrittrice di numerosi romanzi, la Shalev ci racconta con Dolore (Keev è il titolo in ebraico), le ricadute interiori, familiari e fisiche degli attentati terroristici. E, per la prima volta, affronta il tema dell’attentato kamikaze che la colpì personalmente e in modo grave 10 anni fa. La storia di Iris, la protagonista, è quella di un dolore che non passa, che persiste anche quando non dovrebbe più neurologicamente prodursi, come quello di un arto fantasma dopo l’amputazione.
Tutta la sua vita ha subito una doppia amputazione: quella violenta dell’esplosione dell’autobus mentre sta andando al lavoro e quella di un abbandono amoroso che da ragazza rischiò di ucciderla. E soprattutto c’è l’evidenza del corpo. Come il dolore fisico ritorna subdolo quando meno te lo aspetti, – mentre fai le fotocopie, bevi un caffè, o discuti con tuo figlio -, così ritorna il passato lontano, che la vita sembrava aver polverizzato.
Nessuno come Zeruya Shalev sa scavare sulla superficie dei giorni e degli affetti, e affondare il bisturi psichico nelle carni di un’esistenza apparentemente ordinaria e ordinata, scrutarne gli organi interni palpitanti, chinarsi sulle pieghe umide e abissali del passato emozionale. La Shalev è così: prende l’epopea del quotidiano e ne spreme la vena più intima e nascosta, sa raccontare le relazioni familiari con tocchi di rasoio, consegnandoci una serie di romanzi sulle diverse stagioni della vita, come di fatto è la sua intera produzione, ivi compreso l’ultimo, Dolore, grande epopea dell’età di mezzo, quella tra i 48 e i 58 anni.
Un romanzo che racconta il tremito interiore del tempo adulto con i suoi nuovi smarrimenti, ansie e rimpianti, con tutto il bagaglio di fantasmi, mostri, ossessioni, e il passato che bussa da dentro e esplode, come una bomba, nel quotidiano. Non a caso Zeruya Shalev ha alle spalle studi di psicologia e un master in Studi biblici e Talmud: non a caso, sullo sfondo c’è la storia di Giuseppe e i suoi fratelli, metafora del tradimento, dell’abbandono, della violenza. Ma anche del perdono e del ricongiungimento.
Nel libro c’è la realtà di Gerusalemme al tempo degli attentati kamikaze quasi giornalieri, c’è la crisi matrimoniale, c’è l’amore sacrificale per i figli, l’orgoglio femminile per il proprio lavoro e la possibilità di riscrivere la narrazione della propria esistenza a partire dal filo interrotto di ieri. Perché quella che racconta Shalev è una implacabile resa dei conti: quella con noi stessi, con i sussulti e le ferite dell’infanzia e dell’adolescenza, che non smettono di inseguirci. Ma da cui si può guarire, anche in modo sorprendente. Non serve che la vita abbia ricoperto tutto con la sabbia dei giorni, con lo scorrimento veloce delle stagioni. A volte la nostra quotidianità si smorza e scolora, ed è il “fuori fuoco” della vita che esige di voler rientrare al centro dell’immagine. Ciò che è rimasto fuori, ai margini, si illumina del bagliore di un flash inatteso. È ciò che potevamo essere e non siamo stati, è “l’altro destino” che ci chiama, è ciò che volevamo e che non è accaduto, è quell’amore, quel dolore, quell’addio, quella separazione. A volte succede che proprio a metà della vita, un demone distruttivo si diverte a togliere senso a ciò che abbiamo costruito; e allora, marito, famiglia, successo, figli, tutto precipita e ci appare un fasullo make up dell’esistenza, un trucco. Prevale allora la sfiancante fatica di esistere che ci rende incapaci di cogliere i bagliori di gioia nascosti nelle pieghe dei giorni.
Dopo l’abbandono, dopo l’attentato, dopo questi ragazzi cresciuti con immensa difficoltà e il pericolo scampato di una figlia che rischiava di perdersi, dopo questo marito che la sera si chiude in camera a giocare a scacchi con il computer, dopo tutto questo cosa resta? «Dovremmo parlare dell’inutilità dello sforzo femminile, che in fondo rientra nell’inutilità assoluta dello sforzo umano. Non facciamo che metterci alla prova per vedere quanto riusciamo a fare, ma poi?». Poi, conclude Shalev, non resta che venire a patti con la realtà, tenercela stretta e “uccidere” il passato–. Non ci resta che imparare la gloria della vita nel momento stesso in cui la viviamo, costi quel che costi.
Zeruya Shalev, Dolore, Feltrinelli, traduzione Elena Loewenthal, pp. 288,
€ 18,00