di Ugo Volli
“Io formo la luce e creo le tenebre, produco la pace e creo il male; io, il Signore, compio tutto questo”. Così si legge in un celebre passo del profeta Yeshayahu (Is. 45:5-7). Questa è la soluzione che il pensiero ebraico dà a uno dei grandi problemi che si pongono a ogni sensibilità religiosa: l’origine del male. Certamente vi è una parte di male al mondo, quella che ci colpisce e ci indigna di più, che viene dagli atti liberi di esseri umani e di cui si può e si deve dare piena responsabilità a chi la compie. Auschwitz è stato il frutto avvelenato di azioni e complicità umane: con queste bisogna fare il conto prima di pensare a coinvolgere la sfera della divinità. Ma poi vi è anche il male irriducibile, l’epidemia, il terremoto, la sofferenza degli innocenti. Impossibile non chiedersene l’origine.
Nella storia si sono date molte ingegnose risposte a questa domanda, si è pensato a una pluralità di dei che lottano fra loro, alcuni benevolenti, altri malvagi, per lo più indifferenti alla sorte degli umani; oppure solo a una coppia di dei, lontano e debole quello buono, vicino e dominante il malvagio; o ancora alla forza della logica compresenza dei fatti, per cui il nostro è sì il migliore dei mondi possibili, ma deve contenere una quota di male perché le cose sono interrelate fra loro e ognuna ha, per così dire, il suo costo. La soluzione ebraica, che enuncia la Torah, è la conseguenza del monoteismo: “Ora guardate: Io, io lo sono e nessun altro è dio accanto a me. Sono io che do la morte e faccio vivere; io percuoto e io guarisco e nessuno può liberare dalla mia mano.” (Dt. 32,39). E dunque “se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare (anche) il male?” (Giob. 2:10)
È quel che si sono ripetuti per secoli i nostri avi nelle durezze e nelle persecuzioni. Ma per menti assetate di comprensione del divino, come i pensatori della Qabbalah, questa risposta non è sufficiente. Che cos’è che provoca, all’interno dell’unità divina e della dialettica con cui essa si articola, l’emergere del male?
È il tema affrontato dal più grande storico contemporaneo della Qabbalah, Moshé Idel nel suo ultimo libro pubblicato da Adelphi a cura di Elisabetta Zevi: Il male primordiale nella Qabbalah. Totalità, perfezionamento, perfettibilità. Idel non espone una soluzione unitaria del pensiero mistico ebraico, anzi questo studio gli serve per ribadire la sua tesi sulla varietà, la frammentarietà, l’apertura ad influenze esterne di quel vasto movimento che riassumiamo col nome di Qabbalah.
La narrazione di Idel è tipologica più che storica, molto rigorosamente filologica e scritta in uno stile oggettivo, che si propone di chiarire le articolazioni dei pensieri esaminati, non di insegnarli come verità religiosa. Il lettore è affascinato dalla forza immaginativa dei pensieri cui è esposto, meravigliato dalla ricchezza dei temi e delle relazioni, certamente impressionato da complesse narrazioni che insieme sente lontanissime dalla mentalità contemporanea e di cui però non può non riconoscere la pertinenza profonda alla cultura ebraica. Una straordinaria e non facile avventura intellettuale, come tutti i libri di Idel, che sfida i nostri luoghi comuni e la nostra idea di cosa sia l’identità ebraica.
Vi sono delle tendenze più o meno accentuatamente dualiste che identificano nella sfera divina una “pseudo-simmetria subordinata” fra bene e male (perché il bene è privilegiato, ma il male spesso nasce prima). Qualcuno identifica l’aspetto “rigoroso” della divinità con la ragione dei mali del mondo e quello “misericordioso” col bene; questa identificazione è spesso riflessa sulle dieci “sefirot”, le forme di espressione del divino teorizzate da molti cabalisti; alcuni immaginano un gruppo segreto di sefirot più nascosto e precedente all’altro come sede del male. Il male si identifica anche con le “bucce” che si formano intorno alla luce divina al contatto con la materia del mondo. Vi sono coloro che traggono dalla Torah l’idea di una divinità storica, dunque perfezionabile anche nella sua interazione con l’uomo, in particolare dalla preghiera e dal rispetto dei precetti. Vi sono narrazioni midrashiche che coinvolgono la storia di Adamo o le coppie di fratelli fra i patriarchi, come metafore della dialettica fra bene e male. Alcune di queste narrazioni hanno carattere mitico e sono chiaramente il frutto di influenze di altre culture, prevalentemente lo zoroastrismo persiano.