di Fiona Diwan
Troppo schierato. Troppo pessimista. Troppo sbilanciato. Più realista del re, filo-israeliano a oltranza, senza esitazioni, senza tentennamenti… e senza neppure essere ebreo. Quando si parla di lui se ne sentono tante.
Non è un tipo “tiepido” Giulio Meotti e nemmeno vuole esserlo, 35 anni, sposato con due figli, da più di dieci anni giornalista de Il Foglio. Tra i tanti detrattori di Israele onnipresenti nei nostri media, Meotti sa di combattere una battaglia solitaria e per nulla allineata al main stream. E se, in certi circoli, il suo nome è accompagnato da alzate di sopracciglio, va detto che Meotti gode, in ampia parte del mondo ebraico milanese, di un plauso trasversale e che va al di là delle posizioni di destra, conservatrici, di centro o di sinistra che siano. Sarà perché da ragazzo, ad Arezzo, aveva un papà orefice che aveva sempre ospiti e clienti provenienti dal variegato mondo ebraico poliglotta e internazionale, ospiti che portavano con sé un profumo di cosmopolitismo nella pur splendida città di Giorgio Vasari. Sarà perché, da studente di filosofia, Meotti si era “innamorato” di George Steiner, pensatore e letterato ebreo su cui aveva fatto la tesi di laurea. Fatto sta che da circa 15 anni, precisamente dalla prima intifada nel 2000, giovane assistente di Maria Giovanna Maglie inviato dal Medioriente per il TG2, Giulio Meotti ha sviluppato una curiosità giornalistica e culturale, per Israele e mondo ebraico, senza cedimenti.
In un saggio precedente, Meotti aveva messo le mani su un tema delicato, fonte da sempre di scontri all’interno delle comunità italiane: con Ebrei contro Israele, Belforte editore, il giornalista del Foglio denunciava il presunto «odio di sé» di tanti scrittori, giornalisti e uomini di cultura ebrei che avrebbero assunto verso lo Stato ebraico né più né meno che il punto di vista dei suoi nemici. In questo ultimo e iper-documentato saggio invece, Muoia Israele – La brava gente che odia gli ebrei (Rubbettino, 150 pp, 12 euro), Meotti ripercorre l’odio per Israele degli ultimi trent’anni, punta il dito contro il nuovo “tradimento dei chierici” e smaschera lo scandalo di un mondo “progressista” che sta abbandonando ebrei e Israele. E disegna, dati alla mano, un’Europa ebraicamente inospitale e un’opinione pubblica in piena crisi di rigetto. «L’odio è il modo più semplice ed economico per sentirsi buoni. Pensate a quanto utili siano gli ebrei per le persone che si ritengono virtuose», scrive nella prefazione al libro di Meotti il filosofo inglese Roger Scruton. Il tradimento delle elite intellettuali, la demonizzazione sistematica di ebrei (e sionismo), quasi come accadde negli anni Trenta? Forse. Meotti cita una sequela di raccapriccianti e pubbliche esternazioni antisemite, pronunciate da accademici e scrittori svedesi, danesi, olandesi, spagnoli…, articoli velenosi pubblicati sull’aristocratica London Review of books, dichiarazioni vergognose della baronessa Ashton, del regista Ken Loach, dell’ex sindaco di Londra, Ken Livingstone, e molti altri. Il senso ultimo di queste esternazioni, suggerisce Meotti, è il seguente: Israele non ci serve, anzi è dannoso, abbandoniamolo e i terroristi islamici se ne staranno buoni. Per esorcizzare i pericoli dobbiamo prendere le distanze da Israele. In questo scenario, ecco che l’antisemitismo non sciocca più, è tornato a essere socialmente accettabile, banale, “normale”, sottolinea Meotti; si possono cancellare atleti israeliani dalle competizioni europee o boicottare prodotti, intelligenze e tecnologia israeliana senza che nessuno batta ciglio. «I peggiori antisemiti oggi sono la brava gente. Sono i buoni, I rispettabili. Sono i vanitosi dello star system. Sono gli artisti. I filantropi… E quest’odio per Israele fa corto circuito con la diaspora e si riflette come un sole nero anche sugli ebrei europei», scrive Meotti.
«Ho sempre pensato che la questione ebraica fosse la cartina di tornasole dello stato di salute di una società e di un Paese; è il caso dell’ostilità di molti europei verso gli ebrei, cartina di tornasole di una società malata e di un esperimento multiculturalista fallito», dice Meotti. «L’antisemitismo è sempre stato una patologia sociale. È un sismografo, allo stesso modo in cui, per il mondo arabo, lo è il rapporto con il femminile e con la donna, rilevatore del malessere di quelle società. Al centro del mio libro c’è un parallelismo tra gli anni Trenta e i nostri giorni: all’epoca, non furono gli estremisti o gli iscritti al Partito nazional-socialista ad aver abbandonato gli ebrei; furono la brava gente e gli intellettuali. Ieri come oggi, non sono i naziskin o gli esagitati dei centri sociali a far paura. È il messaggio di delegittimazione dello Stato di Israele che parte dall’alto delle istituzioni, l’idea che gli ebrei siano ancora una volta considerati la radice di ogni male».
E prosegue: «Israele non può continuare a essere una Masada perenne. È insostenibile. La realtà è che siamo davanti a una grande democrazia sotto assedio, non solo a causa dei Paesi arabi che lo rigettano o minacciano di distruggerlo, ma soprattutto perché l’Occidente lo sta abbandonando. Occidente che non è stato capace di imporre al mondo arabo questa specie di “trapianto di cuore” che è Israele.
L’irredentismo arabo avrà anche una sua ragione d’essere; ma il clou della faccenda è che lo stesso Occidente pensa che Israele debba scontare una specie di peccato originale. Perché, sulla nostra stampa, il morto israeliano non esiste, è un lutto che non emerge e per il quale nessuno attiva sensori e sensibilità? Perché si deve credere che lo Stato ebraico sia un anacronismo storico? Il sorvegliato speciale delle Nazioni Unite?». Già, perché? La risposta suona amara: questa rapidità con cui l’Europa e l’Occidente -che ha soffocato gli ebrei fino a quasi cancellarli – sta “mollando” gli ebrei, altro non fa che tradire un desiderio, quello di scrollarsi di dosso l’insostenibile peso delle colpe passate. E tradisce l’incapacità sostanziale di gestire la sfida che comporta la presenza di milioni di musulmani e immigrati sul suolo europeo.