Scintille: letture e riletture, di Ugo Volli
Rav Jonathan Sacks: attenti alla “malvagità altruistica”
(quando ti uccido per il tuo bene).
Alle origini della violenza religiosa, da ieri fino al nostro tempo.
Ci sono dei libri che suscitano ammirazione anche a chi è in dissenso con la tesi che vi è contenuta. A me è successo così con Giuda, l’ultimo romanzo di Amos Oz, e in maniera più netta, con più ammirazione e più dissenso, per il libro del più noto e autorevole rabbino europeo, rav Jonathan Sacks, intitolato Non nel nome di Dio, Giuntina. È un libro molto colto, intelligente, brillante, di facile lettura, che espone con britannico buon senso un ragionamento ardito. Lo riassumo brevemente. È chiaro a tutti che noi viviamo in un tempo segnato dalla violenza religiosa (in maniera generica, così la definisce rav Sacks; io direi piuttosto “islamica”).
Questa “malvagità altruistica”, in contraddizione con quella che dovrebbe essere la natura della religione, appare a Rav Sacks frutto del “dualismo” che pretende di distinguere nettamente Bene e Male e dunque mantiene l’altruismo, la generosità, il disinteresse dentro la comunità, riservando all’esterno invece l’aggressione e la violenza. Tale violenza religiosa si esercita però soprattutto sugli esterni vicini: gli eretici, i fratelli separati. Essi sono, secondo la celebre tesi di Renè Girard, “capri espiatori” espulsi per depurare la comunità dai suoi conflitti; questa capacità di purificare e scaricare all’esterno le tensioni è, nell’analisi del libro, funzione comune alle religioni.
Di qui la violenza che segna nella storia i rapporti anche fra religioni relativamente vicine come i tre monoteismi. Rav Sacks si riferisce a questo punto all’idea diffusa che questo problema sia rispecchiato nel testo della Torà coi difficili rapporti fra fratelli, a partire da Caino e Abele fino a Isacco e Ismaele, Giacobbe e Esaù, Giuseppe e i fratelli. La parte più affascinante del libro è quella che cerca di smontare questa idea, mostrando che, se si studia da vicino il modo in cui sono raccontate queste vicende, è possibile leggervi delle “contro-narrazioni” in cui i tradizionali perdenti (Esaù, Ismaele ecc.) sono considerati con simpatia, la loro sorte alla fine è buona e dal testo può essere dunque tratto l’insegnamento della conciliazione.
È a partire da questo insegnamento che negli ultimi capitoli si delinea un appello alle religioni come possibile ponte interculturale capace non solo di motivare amicizia e comprensione fra i popoli, ma anche di superare quel che viene presentato come materialismo e mancanza di senso della società contemporanea. Il libro è senza dubbio molto coinvolgente e di grande valore intellettuale. Vi si disegna in particolare un’etica ebraica di apertura, comprensione, rifiuto del potere in nome dell’amore per la vita in tutte le sue forme.
È evidente e anche molto coinvolgente lo sforzo di superare il pregiudizio, di spiegare la ricchezza del pensiero ebraico, di insegnare una lettura non fondamentalista e cioè elementarmente letterale dei testi sacri, a partire da quelli ebraici. In questo quadro così stimolante vi sono però degli elementi che a me appaiono confusi. Davvero possiamo parlare delle religioni, o almeno delle religioni dette abramitiche, come di realtà sostanzialmente omogenee? Davvero tutte e tre hanno avuto le stesse responsabilità nella violenza e nell’intolleranza? Davvero la religione in quanto tale dev’essere accettata e sostenuta, rispetto a una civiltà contemporanea occidentale che sarebbe arida e vuota, solo materialista e incapace di motivare a sufficienza l’umanità occidentale? Davvero l’Islam, che da quasi mille anni proibisce l’innovazione ermeneutica al suo interno, potrebbe facilmente abbracciare il processo di crescita della complessità e di riconoscimento dell’altro che rav Sacks giustamente rintraccia nell’ebraismo? Davvero, come si sostiene, la lotta intestina e la sconfitta è la sola condizione che induce all’uscita dalla condizione religiosa integralista o dualista?
L’Islam si divide e si combatte al suo interno dalla scissione fra sciiti e sunniti, accaduta più di mille e quattrocento anni fa, ed è spesso stato sconfitto in questo processo e anche nel suo tentativo imperialista di imporsi al mondo – ma la sua aggressività non è stata affatto superata. È difficile dire se il liberalismo, la scienza, la tolleranza siano nate dalla sconfitta del Cristianesimo subita con la Riforma, come dice Rav Sacks, o se sia vero l’inverso, che solo la forza dell’innovazione politica, economica, tecnica e scientifica ha marginalizzato il monopolio cristiano sulla società europea, così oppressivo fino a due secoli fa. Insomma, ecco un libro che aspira a difendere “la religione” in generale dall’accusa di provocare la violenza e insieme a emendarne l’aggressività in un tentativo affascinante e generoso, che senza dubbio dà da pensare. Ma più ci si pensa, più la realtà sembra complessa e non riducibile agli schemi proposti. Forse accade a tutti i libri davvero importanti, di suscitare insieme ammirazione e contraddizione.