Rotoli della Torà

Scegliere la Maestà dei cieli: ecco “l’uomo di fede” di Joseph Ber Soloveitchik, spiegato da Massimo Giuliani

Libri

di Ugo Volli

[Scintille. Letture e riletture]

Come si può definire il pensiero ebraico? Non semplicemente il lavoro teorico e scientifico compiuto da autori ebrei, non per esempio quello di Lévi Strauss o Einstein o Freud, per quanto si possano rintracciare delle influenze ebraiche sulla loro opera; ma solo la produzione di quei filosofi e scienziati ebrei che si confronta esplicitamente con la tradizione e cerca di svilupparla e di metterla in dialogo con la cultura circostante e i problemi del tempo. Per quest’ultima ragione, a causa degli eventi tragici come la Shoah e la distruzione dei vecchi insediamenti ebraici in Europa come in Medio Oriente, o felici come la fondazione dello Stato di Israele, il Novecento è stato un secolo importante per il pensiero ebraico, con autori come Buber, Rosenzweig, Lévinas, Rav Kook e molti altri. Fra questi ha un posto importante Joseph Ber Soloveitchik (Pružany, nell’attuale Bielorussia, 1903 – Boston, 1993): così importante che nel mondo ebraico americano dove ha operato era chiamato semplicemente “il Rav”, per antonomasia.

Oltre a un immenso lavoro pedagogico, di direzione di comunità e diplomatico-politico in rappresentanza dell’ebraismo ortodosso americano, e a quello molto significativo e ricco di decisore halakhico, Soloveitchik è stato anche autore di alcune opere filosofiche, solo in parte tradotte in italiano (The Lonely Man of Faith, in italiano La solitudine dell’uomo di fede, Belforte 2016; Riflessioni sull’ebraismo, raccolta di saggi, Giuntina 1998; Halakhic Man 1988). La posizione del Rav è molto originale rispetto agli altri pensatori ebrei del Novecento. A differenza di Buber, il Rav era diffidente verso la tradizione kabalistica e il misticismo, razionalista nella linea maimonidea, poco attratto dalla “filosofia continentale” (Hegel, Husserl e perfino Heidegger) che influenzarono Lévinas, estremamente cauto nei riguardi del dialogo interreligioso, profondamente interessato alla Halakhà che gli appare come la vera definizione dell’ebraismo, Soloveitchik distingue “l’uomo di fede” da quello orientato alla pratica e alla socialità, rintracciandone le origini fin nel racconto biblico della creazione. Questa distinzione tipologica non è una contraddizione: anche l’ebreo che osserva meticolosamente la legge partecipa alle vicende del mondo e ne è influenzato; ma l’atto di fede, il riconoscimento della sovranità divina e l’obbedienza che ne deriva, è il fattore decisivo: modifica profondamente il suo modo di essere, i suoi scopi, la sua stessa natura. Anche se espresso in scritti non numerosi e non molto ampli, il pensiero di Soloveitchick è complesso e problematico.

Mancava finora in italiano uno studio esaustivo delle sue posizioni, ma ce lo offre ora un libro prezioso, documentato e profondo di Massimo Giuliani, intitolato Antropologia halakhica e pubblicato dalla meritoria “Biblioteca di storia e pensiero ebraico” dell’Editore Belforte. Il libro è scritto con l’acutezza storica e la grande cultura ebraica di tutte le opere di Giuliani, ma ha anche il merito di essere un saggio molto leggibile, che affascina il lettore fin dall’inizio.