di Ugo Volli
[Scintille: letture e riletture]
Bisogna ammetterlo, le idee correnti che noi ebrei abbiamo della storia intellettuale del nostro popolo nei due millenni della Diaspora, diciamo dal Talmud a Mendelsohn, sono piuttosto vaghe. Tutti sanno che ci sono stati dei grandi pensatori, hanno almeno sentito nominare Maimonide, Ibn Ezra, Rashi, i cabalisti e il Maharal, ma per lo più in maniera abbastanza superficiale e generica. Di più, ci sono due grandi pregiudizi che si appoggiano a questa conoscenza superficiale: quello della indipendenza assoluta del pensiero ebraico, che si sarebbe mosso quasi senza contatti in mezzo ai popoli in mezzo a cui pure si sviluppava; e quello della sua unicità e continuità, come se non ci fossero state rotture cronologiche, correnti contrapposte, ridefinizioni profonde di ruoli e tematiche. A questi pregiudizi si sono opposti gli storici del pensiero ebraico, da metà Ottocento con la “Scienza dell’ebraismo” di Heinrich Graerz e Zacharias Frenkel, cinquant’anni dopo con la scuola contrapposta degli studi sulla Kabbalah (soprattutto legati ai nomi Scholem e Idel) e contemporaneamente con gli studi di storia della filosofia ebraica in cui ha avuto un ruolo importantissimo Leo Strauss. È un elenco assai incompleto, che comprende solo i capiscuola internazionali, ma serve soprattutto per aggiungervi un nome che ingiustamente non è molto noto nella cultura italiana, neppure quella ebraica: Shlomo Pines.
Nato nel 1908 e morto nel 1990, docente all’Università Ebraica di Gerusalemme ma molto attivo sul piano internazionale, Pines è stato un grande studioso di filosofia ebraica soprattutto medievale, che ha sempre visto nella sue interazioni all’interno del mondo ebraico con le tradizioni dell’elaborazione del patrimonio normativo talmudico e della Kabbalah, ma soprattutto con le correnti filosofiche islamiche e cristiane. Di lui Neri Pozza ha di recente pubblicato una corposa antologia degli scritti più significativi, intitolata Le metamorfosi della libertà. È un libro di incroci: Il sefer Yezirah, la più antica fonte cabalistica che ci è nota, è studiato in confronto con le Omelie pseudo-clementine, antico testo eretico cristiano; la tradizione cabalistica dei “Magid” angeli personali testimoniati da molti maestri del periodo di Safed, viene accostata al Sefer ha-Tamar, un trattato mistico islamico forse di ascendenza ismailita; si discute la profezia nel libro dei Kuzari di Yehuda ha-Levi e il tempo nell’apocrifo Libro di Enoch.
Al centro dello studio è però la figura di Maimonide, di cui si discutono le fonti arabe, l’interazione con la scolastica e l’influenza su Spinoza. Il saggio più bello è certamente quello sul modo in cui si sviluppa nella cultura ebraica l’idea di libertà, che non è quasi presente nel Tanach, ma diventa importantissima nella resistenza antiromana fra la distruzione del II Tempio e la rivolta di Bar Kocbah. C’è senza dubbio un influsso greco qui, ma la libertà acquisita e statica della civiltà classica diventa secondo Pines nel mondo ebraico un processo attivo di liberazione, cioè rivolta, che si perpetua in tutto l’Occidente grazie alla mediazione degli autori cristiani a partire da Paolo di Tarso. Pines è un grande filologo, con una cultura filosofica e teologica sterminata, con cui il lettore è chiamato a confrontarsi superando qualche difficoltà di orientamento. Ma le tesi di questi articoli sono formulate con esemplare lucidità e dimostrate a passo a passo con pazienza e chiarezza. Ne viene fuori un’immagine della cultura ebraica molto più sfaccettata e in dialogo con il contesto storico e filosofico di quanto si pensi solitamente, una cultura capace di riprendere temi da altre tradizioni e di influenzarne, di porsi problemi teorici fondamentali con una profondità filosofica che di solito non si sospetta.