di Claudia Di Cave
È un percorso interessante e nuovo quello che Elia Boccara propone con il suo ultimo libro (Elia Boccara, Sionisti cristiani in Europa, Giuntina, 2017, pagg. 228, € 16), dedicato alla ricerca del pensiero proto-sionista in ambito cristiano e delle idee di quanti credettero con forza nell’intimo legame tra il popolo ebraico e la terra biblica d’origine e contribuirono a rendere possibili quelle istanze che furono portate avanti dal sionismo vero e proprio solo a partire dalla fine del XIX secolo.
Il titolo non vuole avere una valenza storica, giacché è noto che il termine sionismo fu coniato con diretta connessione al diritto alla autodeterminazione del popolo ebraico. Allora perché la scelta di definire “sionisti cristiani” coloro che sostennero il ritorno degli ebrei a Sion? Come ricorda Marco Morselli nella bella Prefazione al libro di Boccara, l’antigiudaismo, sulla base della errata interpretazione di un versetto del Vangelo di Giovanni, aveva alimentato per secoli il mito dell’ebreo errante, l’ebreo costretto a vagare fino alla Parusia, al ritorno di Gesù, per averlo oltraggiato lungo la via verso il Calvario; a tale mito si erano legati odio e pregiudizi, in virtù dei quali gli ebrei erano stati relegati ai margini della società, e spesso trattati come un corpo estraneo, da espellere da un paese all’altro. In contrasto con tale visione, che non tramontò definitivamente neppure dopo la Rivoluzione francese, appare coraggiosa e controcorrente la posizione di alcuni cristiani che videro nel ritorno a Sion un riscatto della condizione propria degli ebrei e una forma di riparazione per la posizione marginale in cui essi erano stati relegati per secoli. Con una lieve forzatura storica, ma con grande efficacia espressiva, è a loro che viene riferita la definizione di sionisti cristiani.
Fa ancora osservare Morselli la complessità del fenomeno teologico e religioso che vede la diversità delle posizioni ebraiche rispetto a quelle cristiane a proposito del ritorno a Sion: dal punto di vista ebraico l’espressione Shivat Tziyòn, “ritorno a Sion”, non indica soltanto uno spostamento geografico, ma anche la con-versione, ossia il pentimento, in quanto la parola shivà risulta legata dalla stessa radice alla parola teshuvà, pentimento; quindi il ritorno a Sion, più invocato nelle preghiere che praticato nel corso dei secoli (eccettuate le comunità di chassidim che nel XVIII secolo si trasferirono a Tzfat), indicava il pentimento che avrebbe ricondotto gli ebrei in Eretz Israel secondo i piani divini. Secondo la prospettiva cristiana, invece, il ritorno a Sion implicava una conversione nel senso più comune del termine, un cambiamento di religione da parte degli ebrei, che avrebbero abbandonato la loro fede con il riconoscimento della messianicità di Gesù. Permettere il ritorno degli ebrei nella terra biblica dei padri significava dunque operare in favore del compimento delle profezie, con la conseguente conversione finale degli ebrei.
È con l’obiettivo di comprendere di quale natura fosse il favore accordato da parte di questi “sionisti cristiani” al ritorno degli ebrei nei luoghi biblici, quali ne fossero le cause e i fini, se per affrettare la conversione degli ebrei al cristianesimo o per restituire piena libertà e dignità per mezzo del ricongiungimento alla terra d’origine, che Boccara compie un viaggio che, nell’arco di circa tre secoli, si snoda attraverso alcune delle principali città europee (Parigi, Lisbona, Londra) per finire in Calabria, regione periferica rispetto al cuore dell’Europa.
Il primo capitolo, di grande interesse letterario, è dedicato all’Esther, una pièce de théâtre di Jean Racine, composta dal drammaturgo francese dopo aver abbandonato il teatro classico per influenza dei giansenisti di Port-Royal. Con un’interessante analisi della tragedia Boccara rintraccia il lavoro meticoloso che precedette la composizione dell’opera, lavoro basato non solo sul testo massoretico, sulla Vulgata e sulla Settanta, ma anche su fonti midrashiche note a Racine tramite alcuni talmudisti cristiani, i cui scritti sono attestati tra i titoli della biblioteca del letterato.
La frequenza con cui compare nella pièce il nome di Sion, la presenza nelle parole di Mordechai di accenti che ricordano la morte per la Santificazione del Nome, sono indizi per riconsiderare il dramma non solo alla luce di una profonda fede ispirata alla visione della Grazia salvifica di matrice giansenista, ma anche del rifiuto della visione ostile del popolo ebraico, la cui dignità lesa poteva trovare una riparazione solo nel ritorno a Sion.
Degno di nota il fatto che, benché nella Meghillat Esther non si parli del ritorno degli ebrei in Israele, Racine attribuisca ad Assuero il merito di averlo incoraggiato, meritandosi così la qualifica di sionista ante litteram.
Con capitoli di notevole interesse, Boccara si addentra poi nell’ambiente lusitano, dove nel XVII secolo fiorirono attese millenaristiche che influenzarono una grande personalità, quella di Antonio Vieira. religioso gesuita che si trovò a perorare la causa dei nuovi cristiani presso il re Joao IV che aveva restaurato il Regno di Portogallo dopo un periodo di annessione alla corona di Spagna. Adducendo la necessità di superare la crisi economica che allora colpiva il Portogallo, nel 1646 Vieira propose al re di sospendere le persecuzioni del Tribunale dell’Inquisizione nei confronti della gente da nação, i marrani: le vessazioni subite dai marrani- chiamati anche os judeus -ad opera dell’Inquisizione, secondo Vieira, da una parte avevano danneggiato il Portogallo con la perdita di risorse economiche, dall’altra avevano disgustato gli ebrei convertiti, spingendoli a tornare alla loro fede d’origine una volta approdati in luoghi più tolleranti. La proposta del gesuita si spingeva fino ad auspicare la eliminazione delle differenze che intercorrevano tra vecchi e nuovi cristiani, giacché la separazione non favoriva l’integrazione; inoltre, basandosi innanzitutto sul presupposto teologico – fondato su Atti degli Apostoli, 9,15 – che la missione dei cristiani era rivolta innanzitutto alla conversione dei gentili, prospettava un accantonamento della politica conversionistica verso gli ebrei. E soprattutto ricordava che nello Stato della Chiesa, ad Amsterdam e altrove le sinagoghe erano autorizzate.
Ma lo sviluppo più interessante della storia di Antonio Vieira fu l’incontro, avvenuto nel 1648, con il portoghese Menasseh ben Israel, marrano tornato alla fede ebraica ad Amsterdam: la profezia contenuta nella sua opera, Esperança de Israel – fondata su Daniele, 2,44 – vagheggiava l’avvento di una monarchia universale superiore alla caducità dei quattro imperi tramontati nella storia, quello babilonese, persiano, greco e infine romano. Nota Boccara la somiglianza tra queste posizioni del rabbino portoghese e la teoria del Quinto impero di cui Antonio Vieira parlò nella Clavis Prophetarum, un’opera con la quale contribuì a stemperare il clima ostile nei confronti degli ebrei e dei marrani, legittimando l’attesa del Messia, discendente della casa di David, come momento centrale nella riunificazione del popolo ebraico e come evento non in conflitto con la messianicità universale del Cristo. L’opera di questo coraggioso gesuita, che nel periodo più intenso degli Autos de fe si adoperò per ridurre le vessazioni che colpivano gli ebrei, costituisce un’altra significativa tappa del filo rosso lungo il quale Boccara conduce i suoi lettori.
Dopo alcune pagine dedicate all’Émile di J.J.Rousseau, che auspicava uno Stato libero per gli ebrei, con scuole e università, come condizione necessaria perché, liberi di “parlare e disputare senza correre rischi, possano far intendere le loro ragioni”, Boccara ritorna alla figura di Menasseh ben Israel, che introduce la prosecuzione dell’indagine in ambiente inglese: fu a Londra, infatti, che il Rabbino portoghese si recò nel 1655 per intercedere a favore dei marrani e degli ebrei, ottenendo da parte del Lord Protettore Cromwell il permesso personale che gli uni e gli altri potessero stabilirvisi praticando liberamente la loro fede ( nonostante una Commissione, all’uopo convocata, si fosse dichiarata contraria). La disponibilità di Cromwell trovava certamente valide ragioni: l’adesione da parte del Lord Protettore al movimento puritano, in lotta contro la Chiesa “alta” tradizionalmente più ostile agli ebrei, la buona conoscenza dell’Antico Testamento grazie alla traduzione inglese fornita dalla Bibbia di Re Giacomo del 1611, ed anche le Chiese nate dalla galassia della Riforma, quella dei Nonconformisti, tra cui i Sabbatariani, i Battisti, i Congregazionisti e i Presbiteriani che si presentavano come vicini alla sensibilità ebraica.
L’impronta delle Chiese non conformiste e puritane perdurò a lungo in Inghilterra fino al XX secolo con un atteggiamento di familiarità e di simpatia nei confronti degli ebrei congiunto all’auspicio che il ritorno alla terra dei padri, implicasse -alla fine dei tempi- il riconoscimento della messianicità di Gesù; a proposito della Dichiarazione Balfour del 1917, l’autore considera fattore non secondario il fatto che il Primo Ministro Lloyd George e il Ministro degli Esteri Balfour avessero ricevuto un’educazione e una formazione puritana, ma un elemento che concorse alle circostanze storiche favorevoli che determinarono la disponibilità inglese a favorire la nascita per gli ebrei di “un focolare nazionale” in Palestina.
Le biografie di alcuni militari inglesi che si trovarono ad operare nella Palestina divenuta ormai un Mandato britannico consentono di rilevare un atteggiamento favorevole verso il futuro Stato ebraico in concomitanza con l’appartenenza ad una delle Chiese non conformiste: è il caso del Tenente Colonnello J.H. Patterson a cui si deve la costituzione del primo battaglione ebraico formato da ebrei emigrati in Inghilterra dalla Russia e dall’Europa Orientale; quello di Sir Wyndham Deedes, che negli anni ’20, in qualità di Generale, cercò di amministrare la Palestina con equanimità, incontrando le varie comunità che la popolavano per favorire una convivenza pacifica; il caso di Orde Wingate, il cui intervento per organizzare le forze di difesa ebraiche in collaborazione con l’esercito inglese venne addirittura giudicato dai quadri dell’esercito, che dimenticavano facilmente l’offerta di Balfour, come sovversione e ammutinamento.
Dopo questa digressione storica relativa al XX secolo Boccara ritorna al XIX secolo con l’analisi di un testo assai interessante dal punto di vista letterario, quello della scrittrice inglese George Eliot, che nella dedica iniziale Boccara definisce come “la più moderna dei sionisti inglesi” e “precoce discreta annunciatrice di un prossimo Stato ebraico”. Il giusto rilievo assegnato a questa autrice trova giustificazione nell’ultima e più importante delle sue opere, un romanzo del 1874 incentrato sulla figura del protagonista, da cui il romanzo stesso prende il titolo, Daniel Deronda, giovane che, dopo essere stato allevato come un gentiluomo inglese, viene a conoscenza della sua identità ebraica e, nella relazione d’amore con una giovane donna ebrea immigrata in Inghilterra per sfuggire dai pogrom della Russia zarista, scopre le sofferenze del popolo ebraico. La novità del romanzo, per quei tempi, consisteva in una rappresentazione dell’ebreo che, non aderendo agli stereotipi presenti nella letteratura inglese, cercava di comprenderne la storia fino agli eventi contemporanei all’autrice. Il romanzo si concludeva con il coronamento dell’amore dei due giovani che decidevano di trasferirsi nella terra dei loro antenati, la terra di Israele, per costruire un futuro veramente libero. George Eliot, prima di comporre il romanzo, compì un lavoro di studio e documentazione sull’ebraismo, attingendo anche alla Wissenschaft des Judentums, grazie alla quale conobbe la cultura ebraica nella sua totalità: se, come abbiamo visto, dal tempo della Riforma gli Inglesi avevano una certa familiarità con l’Israele biblico, altrettanto non si poteva dire per il giudaismo rabbinico, che tuttavia non meno della Bibbia aveva contribuito a forgiare l’identità ebraica. I notebooks dell’autrice relativi agli studi che precedettero il romanzo, riportati da Boccara in un apposito capitolo, documentano il tentativo della scrittrice di comprendere la cultura ebraica nella sua totalità, dall’età biblica all’epoca talmudica, fino alla contemporanea Scienza del Giudaismo fiorita in Germania, e fanno fede della sua volontà di ricomporre un quadro storico completo e non viziato da pregiudizi.
Nell’approssimarsi alla fine del percorso l’autore intende restituire il giusto merito anche ad un’altra interessante personalità del mondo anglosassone. Si tratta di William Hechler, un sacerdote legato alla chiesa inglese anglicana, nella sua versione evangelica, che a Vienna, dove era cappellano presso l’Ambasciata inglese, incontrò il fondatore del Sionismo, Teodoro Herzl; divenne suo amico e compagno di ideali da quando, nel 1896, per caso si era trovato a leggere la sua opera , Der Judenstaat, fino alla morte di Herzl, a cui volle essere vicino fino alla fine.
Il sostegno dato a Herzl e al Sionismo da questo sacerdote fu importantissimo, in quanto, grazie alla sua conoscenza dell’ambiente diplomatico, Herzl ebbe la possibilità di incontrare dapprima il Granduca di Baden, nipote del Kaiser Guglielmo II, poi il Kaiser stesso e infine il Sultano, per guadagnare alla causa sionista il favore della Prussia, prospettandole un protettorato tedesco sul futuro Stato ebraico, e il consenso del Sultano, promettendo un contributo ebraico per il risanamento delle dissestate finanze dell’Impero Ottomano. Le trattative si arenarono e Herzl morì senza vedere realizzato il suo sogno, ma l’amico sacerdote gli sopravvisse per molti anni: tornato a Londra nel 1910, continuò ad adoperarsi per la causa sionista nel periodo della I Guerra Mondiale, sognando ancora uno Stato ebraico, grazie al quale gli ebrei non sarebbero stati più costretti a combattere su fronti opposti, e vedendo tramontare l’idea di un’intesa arabo-ebraica in Palestina, a causa delle sommosse arabe del 1920. Poco prima della sua morte sentì nominare un certo Hitler che in un suo libro progettava di eliminare tutti gli ebrei.
Il viaggio di Boccara si conclude in Calabria, dove nacque e visse Benedetto Musolino, noto patriota del Risorgimento, che combatté senza sosta i Borboni fino alla costituzione dello Stato italiano. Musolino, oltre che patriota, fu appassionato di politica estera: nel 1851 compose un’opera di quattrocento pagine in cui, considerando che la Palestina era strategicamente importante in quanto punto di arrivo dei traffici commerciali che provenivano dall’Estremo Oriente, ne proponeva la modernizzazione, da realizzare attraverso la costituzione di uno Stato ebraico esteso da Suez alla Giordania. Tale atto politico avrebbe dovuto costituire una riparazione nei confronti del popolo ebraico che non aveva mai rinunciato moralmente al diritto di possesso di quella terra. L’autore non si spingeva a vedere una completa indipendenza, ma immaginava che lo Stato dovesse far parte dell’Impero Ottomano e che l’Inghilterra ne fosse garante. Musolino intendeva sottoporre questo progetto politico al Primo Ministro inglese Palmerston, ma non vi riuscì e quindi lo ripose in un cassetto, probabilmente preso dai più urgenti impegni che lo videro collaborare al processo di unificazione dell’Italia. Il libro fu pubblicato un secolo dopo, nel 1951, tre anni dopo la nascita dello Stato di Israele che Musolino si era spinto a immaginare un po’ di tempo prima che ci fossero i primi insediamenti sionisti.
Il risultato della ricerca condotta offre diversi spunti di riflessione: i precursori cristiani del Sionismo si ritrovano, come dimostrano gli studi su Racine, Vieira e Rousseau, molto prima del XIX secolo, quali portatori di idee che sempre meno trovavano fondamento in un progetto conversionistico, per richiamarsi invece ai principi della dignità e della libertà, che sarebbero stati proclamati dalla Rivoluzione francese, come dimostra l’Émile di Rousseau. Le posizioni di Vieira, che, sulla base di Atti degli Apostoli 9,15, si spingevano a sostenere che la conversione degli Ebrei non era tra le priorità della Chiesa, anticipano di quasi tre secoli la Nostra Aetate del Concilio Vaticano II.
Un posto a sé tra le nazioni europee spetta all’Inghilterra che, per la sua storia religiosa, sviluppò nelle Chiese riformate un sentimento di simpatia e familiarità con l’Antico Testamento e con il popolo ebraico, sì da guardare con favore ad una rinascita degli ebrei anche come nazione moderna. Dall’opera emerge anche una valutazione storica sulla nascita del nazionalismo ebraico. L’esempio di Eliot e Musolino, che furono contemporanei, mostra come è nella stessa epoca delle lotte risorgimentali che va rintracciata la riflessione sugli ebrei in quanto legittimi depositari dell’aspirazione nazionale riferita alla terra biblica. E tale riflessione fu condotta in un’epoca in cui tra gli ebrei stessi vi erano coloro che, partecipando alle lotte risorgimentali per i paesi in cui risiedevano, aspiravano a entrare a testa alta negli Stati europei che si andavano costituendo.
In un’opera così densa non poteva mancare un riferimento conclusivo all’attualità, partendo dalla constatazione che denominatore comune agli autori trattati è l’assenza di attenzione verso gli arabi che nel periodo analizzato erano presenti nella regione. In fin dei conti – osserva giustamente l’autore – il nazionalismo arabo è il più recente tra i nazionalismi ed è naturale che nel XIX secolo non se ne parlasse. Boccara non vuole entrare in un tema che esula dai confini del percorso tematico trattato ma, partendo dal dato di fatto che oggi la terra è abitata da due popoli, non può che concludere con l’auspicio che “ognuno dei due contendenti sappia mettersi nei panni dell’altro” per arrivare alla pace.