«Solo dopo l’attentato ho capito che cosa fosse la speranza»

Libri

di Marina Gersony

Ho incrociato Zeruya Shalev in varie occasioni di lavoro. Incontri che si sono trasformati in una bella amicizia. E ho imparato a conoscere così la personalità di questa scrittrice ai vertici delle classifiche in Israele, bestseller tradotti con successo in molti Paesi.

Non si può prescindere dal suo vissuto personale per capire davvero la sua scrittura e il modo in cui affronta tematiche complesse senza timore: la solitudine, l’amore, il senso di inadeguatezza, le dinamiche interpersonali, la paura, la morte. Nata in un kibbutz nel 1959, prima di dedicarsi alla scrittura, Zeruya ha svolto studi sulla Torà da cui ha spesso tratto ispirazione per i suoi libri.

Sposata più volte, diversi figli e una moderna famiglia allargata («la mia è una famiglia patchwork!»), la sua vita è stata profondamente segnata, nel 2004, da un attentato terroristico di un kamikaze palestinese di cui rimase vittima a Gerusalemme, mentre tornava a casa sua a Rehavia. Una tragedia da cui oggi è ormai indenne, ma di cui ancora sono visibili i danni fisici e psicologici: «Non potrò mai dimenticare quel giorno, ma non è certo con l’odio o con la sete di vendetta che si ferma la violenza. Ogni volta che qualcuno mi chiede di descrivere l’accaduto, racconto un episodio che mi ha toccata nel profondo. Dopo l’attentato sono andata dal mio solito fruttivendolo palestinese. Non mi vedeva da diverso tempo e quando mi ha vista arrivare con le stampelle mi ha chiesto stupito cosa mi era successo. Ho tergiversato prima di rispondergli, ero imbarazzata, ma poi ho deciso di dirgli la verità. Non posso dimenticare il suo sguardo. Mi ha guardata senza dire una parola e mi ha abbracciata forte. Poi mi ha sussurrato turbato e pieno di vergogna: “Mi dispiace. Mi dispiace tanto”. In quel momento ho provato un senso di vicinanza e di calore umano indescrivibili. Ogni volta che racconto l’episodio mi commuovo. Basta un gesto come questo per ritrovare la speranza».

E Zeruya la speranza non l’ha persa, così come non ha perso la fiducia nel genere umano e l’amore incondizionato per Israele: «In questa terra sono nata, la amo sopra ogni cosa, qui voglio vivere e morire. Ho spiegato ai miei figli quali sono le sofferenze dei bambini palestinesi invitandoli a immedesimarsi in loro e non a odiarli». In quell’occasione mi raccontò di aver sorpreso suo figlio Yaar davanti alla tivù mentre cercava di imboccare i bambini palestinesi attraverso lo schermo: «Era piccolo ma aveva già capito tutto».

E ora eccola di nuovo in Italia per presentare il suo nuovo libro Quel che resta della vita (She’erit ha-chaim. Traduzione di Elena Loewenthal, pp. 373, euro 17,00, Feltrinelli).

Gli anni passano e Zeruya conserva immutabile – come spesso accade agli artisti -, quell’eterno sguardo di ragazza racchiuso in due intensi e melanconici occhi verdi. Così come conserva la sua grande curiosità per la complessità delle relazioni umane e interpersonali: «Quando si entra in relazione con qualcuno si entra generalmente in conflitto. Quindi bisogna capire prima di tutto se stessi per poi accettarsi per quello che si è. Solo a quel punto i rapporti con gli altri possono migliorare. Ecco perché la sofferenza è necessaria: senza passare da quella cruna dell’ago non possiamo mutare, né capire, né evolverci. Ogni crescita è dolorosa, ma fondamentale per raggiungere una qualche forma di maturità».

A quei critici che l’hanno descritta come “scrittrice introversa e pessimista”, Zeruya ha controbattuto dicendo che no, «non penso di esserlo. Se mi confronto con le contraddizioni e con i lati nascosti piuttosto che con gli aspetti più risolti della natura umana, è perché cerco nuove vie di uscita nei vari passaggi dell’esistenza. La mia speranza è che un maggior senso di responsabilità del singolo si rifletta nella collettività, la quale poi potrà trarne benefici. È anche il motivo per cui non mi soffermo a descrivere la società israeliana. Il mio discorso parte da un’altra prospettiva. In genere, soprattutto in Europa, si tende a parlare di Israele sempre in rapporto ai conflitti e al terrorismo. Ma la vita da noi è ricca di altre variabili, di emozioni e di sentimenti, amplificati proprio da quel senso di precarietà che rende l’atmosfera più drammatica, ma anche più vivida e per alcuni versi intensa».

Di cosa parla quest’ultimo libro? L’atmosfera si delinea fin dalle prime pagine: una madre anziana, Hemda Horowitz, giace in un letto di ospedale circondata dai due figli mentre le ore scorrono implacabili e feroci. Tic tac, tic tac. È diventata più grande la stanza o è rimpicciolita lei? Chi lo sa. Finirà per stare a letto anni e anni a guardare i suoi figli invecchiare e i nipoti diventare grandi. Già, con quella loro amara indifferenza la condanneranno a vita eterna. Anche per morire ci vuole una certa energia, una certa disposizione positiva del morente. Eccoli lì, i volti dei suoi figli che la scrutano insofferenti, devastati dai sensi di colpa, ma anche da risentimenti antichi. Brutta cosa la vecchiaia. L’anziana madre lo sa fin troppo bene. Per morire ci vuole anche una misura d’amore, e lei invece non è più amata abbastanza e forse neanche ama più abbastanza. Non è dunque più tempo per le illusioni e le menzogne. In Quel che resta della vita è tempo di bilanci. Difficile sintetizzare in poche righe la trama di questo libro intenso, che va centellinato per non rischiare un eccesso di emozioni. Ancora una volta, infatti, Zeruya si rivela più introspettiva che mai, tesa ad esprimere moti dell’animo spesso vischiosi e a scomporre ogni gesto dell’agire, più che a soffermarsi sull’azione.

I suoi protagonisti sono persone comuni e tuttavia prive di caratteristiche piccolo borghesi. «Prendiamo la seconda generazione israeliana (la prima era impegnata nella costruzione del Paese e dei kibbutzim, come nel caso dei miei nonni). Hemda, rappresenta la seconda generazione che si sente un po’ persa e confusa. Ha avuto genitori severissimi ed è cresciuta con l’incapacità di godersi la vita. Quindi ha dovuto cercare nuovi miti rispetto ai genitori. È anche un po’ la storia di Israele, di quello che è stato il sogno per molte generazioni, un sogno che non è stato completamente realizzato dalle generazioni che sono venute dopo». Non a caso il rapporto conflittuale dell’anziana madre con i figli Dina e Avner – entrambi a loro volta genitori – è il punto focale del romanzo. Verso la figlia, Hemda prova una sorta di disinteresse mentre per il figlio – avvocato che combatte per i diritti delle minoranze, chiamato, per spregio, “l’avvocato dei beduini” -, manifesta adorazione. Come da copione, Dina cerca di essere una madre opposta a quella che ha avuto. Se Dina soffre, se suo fratello soffre, è perché la loro madre a sua volta ha sofferto, così come i nonni e i bisnonni in una catena senza fine. Nessuno, insomma, sembra essere felice.

Osserva Zeruya: «Entrambi i fratelli hanno avuto un problema con i genitori. Tutti i genitori fanno degli errori. Bisogna saper dare il proprio amore e non soltanto provare amore per i figli. Hemda non era pronta quando è nata Dina, lo è stata invece con il secondogenito Avner, verso il quale si è rivelata più disponibile nel dare e mostrare amore. Dina ha così avuto la sensazione di essere trascurata sviluppando una forte gelosia nei confronti del fratello che a sua volta si è sentito oppresso dall’amore eccessivo e mal comunicato della madre. Per non parlare degli squilibri all’interno della famiglia, il padre che preferiva la figlia, la madre che preferiva il figlio. Alla fine ho cercato di condurre i due fratelli a una sorta di conciliazione. Dina, nella sua solitudine e disperazione trova nel fratello molta più comprensione di quanto si aspettasse, tanto che i due diventano sempre più vicini e solidali. Credo che questo sia il romanzo più ottimista che abbia mai scritto fino a oggi».

Quanto c’è di autobiografico? «Utilizzo sempre le mie esperienze, talvolta molti anni dopo che mi sono accadute quelle cose o emozioni. Nel libro Dopo l’abbandono parlo di una donna che divorzia dal proprio marito e poi rimpiange questa cosa. L’ho scritto 15 anni dopo aver avuto un’esperienza simile. Mia madre è vissuta in un kibbutz e io vi sono nata. E così, a volte, la vita di mia madre si intreccia con la mia e da qui in poi la fantasia si intreccia con la verità».