di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita] Tre donne, attraverso tre libri significativi, possono dare la misura dell’estrema diversità che caratterizza non solo la società israeliana ma anche la scrittura femminile di questo paese che fu considerato nel passato come un pioniere del femminismo con il primo ministro Golda Meir e le soldatesse di Tsahal, ma dove il patriarcato sopravvive ancora in molti ceti e in molte strutture (come per esempio nella giurisprudenza rabbinica che gestisce ancora esclusivamente il diritto matrimoniale della maggioranza ebraica del paese).
Il romanzo Dolly City (1992) di Orly Castel-Bloom non si svolge in Israele, paese dilaniato fra arcaismo e modernità, ma bensì in una città distopica che assomiglia a Tel Aviv, una Tel Aviv amplificata e resa ancora più frenetica e pazza di quanto lo sia realmente. Dolly, la protagonista eponimica del romanzo, è una dottoressa nevrotica che trova un neonato in una busta di plastica in una discarica. Si prende cura del bambino e nutre nei suoi confronti dei sentimenti materni ansiogeni che la spingono a vivisezionare il suo corpicino in modo ossessivo per verificare che tutti gli organi funzionino. Questa descrizione di un legame patologico fra una madre adottiva e un bambino trovato nella spazzatura è solo l’esagerazione delle nevrosi di Tel Aviv, città postmoderna dove il legame fra l’istituzione del matrimonio e la procreazione, assistita in molti casi, si è considerevolmente diluito.
Ben diversa è la voce narrativa di Zeruya Shalev nel suo romanzo Ba‘al ve-ishah (2000), tradotto da Elena Loewenthal sotto il titolo Una storia coniugale (2001). La scrittura di questo romanzo intimista è molto più tradizionale tanto dal punto di vista della struttura narrativa che da una prospettiva stilistica. La protagonista Na‘ama, sposa abbandonata dal marito Udi con una bambina di nove anni, si rivela come un essere vulnerabile e forte allo stesso tempo. A prima vista, il mondo descritto da Shalev è più conformista di quanto lo sia l’esagerazione distopica di Dolly City. Eppure, lo sforzo di approfondimento psicologico permette a Shalev di raggiungere una dimensione molto più autentica di quanto sia il mondo snaturato e alienato descritto da Orly Castel-Bloom. Una storia coniugale è un racconto emblematico del legame complicato che la società israeliana laica mantiene con la tradizione ebraica. Ad un certo punto, la voce interiore ossia il flusso di coscienza della protagonista cita versetti biblici che paragonano la relazione di Dio con Israele ad una storia coniugale. Ma nel contesto del romanzo, la relazione fra il comparante e il comparato è rovesciata: la storia coniugale non è più il comparante del legame fra Dio e il suo popolo ma bensì il versetto biblico, che parla di questa relazione fra Dio e Israele, diventa il modo di descrivere la relazione tumultuosa fra Na‘ama e suo marito. Questo dimostra che la cultura e la letteratura israeliana sono ancora nutrite di riferimenti biblici sebbene laicizzati in un modo estraneo alla ricezione del testo sacro nei ceti tradizionali.
Con Ayelet Gundar-Goshen e il suo romanzo Ha-shaqranit ve-ha-‘ir (2018) (Bugiarda nella traduzione di Raffaella Scardi pubblicata nel 2019) la voce femminile della letteratura israeliana conosce un’ulteriore mutazione: lontani dalla partenogenesi nevrotica di Dolly City o dall’evocazione della sofferenza di una vita di coppia infelice di Una storia coniugale, Bugiarda sceneggia una vicenda che non ha mai avuto luogo attraverso l’accusa menzognera di molestie sessuali che una venditrice di gelato diciassettenne rivolge ad un animatore TV, venuto semplicemente a comprare dei gelati. Il fatto stesso di aver osato suggerire che non tutte le denunce di Me too sono vere è costato ad Ayelet Gundar-Goshen, giovane romanziera già famosa al momento della pubblicazione di Bugiarda, una valanga di attacchi da parte di femministe radicali. Ho avuto personalmente l’occasione di misurare la violenza di questi attacchi durante una serata letteraria organizzata in onore di Gundar-Goshen a Gerusalemme nel luglio 2018. Non tutti in Israele sono capaci di capire che la narrativa non deve necessariamente veicolare denunce unilaterali ma può anche esplorare dimensioni psicologiche più profonde che rivelano zone grigie al di là del bene e del male.