di Cyril Aslanov
[Ebraica. Letteratura come vita]
Poco dopo la data fatidica del 70 dell’era volgare, l’anno in cui le legioni romane distrussero il Tempio di Gerusalemme, il teorico della retorica Quintiliano scrisse nel suo trattato Istituzione oratoria (II, 13, 13) che nel rappresentare il sacrificio di Ifigenia, il pittore greco Timante, avendo dipinto Calcante triste e Ulisse ancor più triste, e attribuito a Menelao il massimo dell’afflizione che l’arte dell’epoca fosse in grado di esprimere, una volta che tutte le risorse della tecnica pittorica vennero consumate, siccome non trovava il modo in cui avrebbe potuto dipingere la faccia di Agamennone, lo rappresentò con il viso velato. In questo modo suggerì a contrario il parossismo del dolore.
Secondo lo stesso principio, le evocazioni più potenti dello sterminio di 6 milioni ebrei non sono forse quelle che descrivono l’atto atroce dell’assassinio sistematico in quantità industriale, ma piuttosto quelle che usano la figura dell’aposiopesi, della reticenza, per suggerire a contrario il massimo dell’orrore. Mentre l’autore franco-americano di lingua francese Jonathan Littell descrisse in tutti i dettagli il sistema dello sterminio quando fece parlare il suo protagonista, il nazista Maximilian Aue nel romanzo Le Benevole (2006, 2007 in traduzione italiana), certi scrittori sopravvissuti alla Shoah preferiscono sospendere la testimonianza di ciò che hanno vissuto nella propria carne, soprattutto quando si tratta dell’evocazione della morte dei loro parenti o dei loro compagni di sfortuna.
Questo riflesso è probabilmente dovuto al fatto che essi sono più consapevoli di qualsiasi altra persona dell’insuperabile differenza fra “i sommersi e i salvati”. Così accade che lo scrittore israeliano Aharon Appelfeld, nato a Cernovitz in Bucovina (odierna Ucraina), pur dedicando la maggior parte della sua prolifica opera all’evocazione degli anni di guerra, preferisce tacere i momenti più duri, quelli dello sterminio (nel suo caso la morte lenta programmata nei campi di concentramento di Transnistria, l’attuale Moldavia). Uno dei suoi migliori romanzi, Tor ha-Pla’ot – L’età dei prodigi (1978) che sorprendentemente non esiste in traduzione italiana, è diviso in due parti: la prima porta lo stesso titolo del libro (L’età dei prodigi) e parla degli anni apparentemente prodigiosi che precedono la Seconda guerra mondiale; la seconda intitolata Quando tutto fu compiuto e qualche anno dopo evoca l’immediato dopoguerra, quando la maggioranza dei protagonisti descritti nella prima parte sono scomparsi nella tormenta della guerra e della persecuzione. Ma il narratore non dice una parola su ciò che avvenne loro: si accontenta di constatare la loro assenza.
La stessa tecnica letteraria che consiste nel tacere gli aspetti più atroci del processo di sterminio pure alludendoci in modo apofatico (dal greco apòphasis, negazione, ndr), fu usata dallo scrittore francese di origine ebraica polacca Georges Perec che era un bambino di 6-7 anni durante i peggiori anni della persecuzione antisemita nella Francia di Vichy (1942-1944). In uno dei suoi libri sperimentali W ou le souvenir d’enfance (1975), tradotto in italiano con il titolo W o il ricordo d’infanzia (Einaudi, 2005), Perec parla della Shoah in modo implicito e camuffato, usando svolte narrative. La lettera W (= V + V), che compare già nel titolo, simbolizza l’intreccio di due narrazioni alternate ben distinte grazie al contrasto fra i caratteri corsivi e romani. La prima narrazione è una distopia che descrive una colonia di ex-nazisti nell’isola di W, nella regione della Terra del Fuoco, dove l’atletismo è eretto brutalmente a livello di valore assoluto a dispetto della vita umana. La seconda è un testo autobiografico dove Perec cerca di ricostruire i suoi ricordi di piccolo orfano nascosto in un’istituzione cattolica dopo la deportazione di sua madre Cyrla Szulewicz nel 1943. L’allegoria macabra del nazismo e l’autobiografia del sopravvissuto si incontrano alla fine del libro, nell’epilogo, con la citazione di un brano dell’Univers concentrationnaire di David Rousset (1946; 1947 in traduzione italiana) che dà la chiave dell’allegoria distopica e dei frammentari ricordi autobiografici. Questa tecnica dell’evocazione apofatica dell’orrore è una modalità cardinale della letteratura della Shoah intesa nel senso di testi scritti da sopravvissuti. Fa pensare a un fenomeno spesso costatato nelle persone che hanno vissuto nella loro carne l’inferno dei campi o il traumatismo dei bambini nascosti: il silenzio, il rifiuto di parlare di ciò che struttura la loro intera esistenza dopo ciò che è avvenuto più di settant’anni fa.