Tiziano Vecellio, Bacco e Arianna (particolare)
di Fiona Diwan
Desiderio, seduzione, sentimento. Come si amava nel Rinascimento italiano? Lo raccontano celebri dialoghi d’amore e opere d’arte: da Leone Ebreo a Tullia d’Aragona, da Pico della Mirandola a Elisha del Medigo (passando per Maimonide e lo Zohar), alla numerosa presenza ebraica nelle corti umanistiche. Tra cortigiane e principesse, condottieri e qabbalisti, artisti e maestri di danza (tutti ebrei), si dipana il racconto di un’epoca che segna una vera rivoluzione nella percezione di noi stessi e dei nostri cinque sensi, indagata oggi in un raffinato saggio illustrato di Giulio Busi e Silvana Greco
È uno dei trattati d’amore più celebri del Rinascimento ed è ispirato all’opera del medico umanista Leone Hebreo. Si tratta di Della Infinità di Amore scritto da Tullia d’Aragona, una delle “cortigiane oneste” più belle, erudite e celebrate del suo tempo: Tullia aveva usato come modello letterario proprio quei Dialoghi di Amore scritti da Leone prima in ebraico e poi in italiano agli inizi del Cinquecento, durante una delle sue numerose peregrinazioni in giro per la penisola. Presumibilmente i due si erano incontrati a Roma, nello scintillante salotto di Tullia oppure in uno dei frequenti passaggi nella raffinata corte d’Este a Ferrara, Leone in fuga dall’Inquisizione, Tullia in cerca di fama letteraria. Pare ancora di sentirle queste due voci, una maschile e una femminile, che s’intrecciano e si rincorrono in uno scambio serrato, erudito e seduttivo insieme, che si dispiega tra ironia, sottili provocazioni e scambi di battute: così, Tullia riprende e rielabora il modello letterario inventato da Leone Hebreo nei suoi Dialoghi di Amore – uscito postumo a Venezia nel 1535 -, un testo destinato a diventare un best seller dell’epoca e a esercitare una grande influenza sulla cultura della seconda metà del XVI secolo.
Troviamo questa e molte altre interessanti vicende nel volume Amarsi – Seduzione e desiderio nel Rinascimento, scritto a quattro mani da Giulio Busi e Silvana Greco (il Mulino, pp. 382, 48,00 euro), entrambi docenti universitari, saggisti e studiosi di arte, materie ebraiche, sociologia e storia rinascimentale. Una lettura fluida e tutt’altro che per addetti ai lavori, che si nutre di curiosità e risvolti sorprendenti, corredata da brani letterari e magnifiche immagini di opere d’arte. Gli autori ci raccontano così l’appassionante intreccio tra sentimento, desiderio e seduzione ai tempi del Rinascimento, nell’ambiente cortigiano delle Signorie, le sue evidenti ricadute sul mondo ebraico letterario. Un pregevole e godibilissimo saggio che è una cavalcata nell’eros del Quattrocento e del Cinquecento italiano, una ricognizione quanto mai dilettevole, sia della cronaca mondana e illustre, sia della concezione artistica e letteraria di quei secoli prodigiosi.
Rinascimento: ovvero la scoperta dell’universo sensoriale e materico, dei valori tattili, della resa pittorica di un universo cromatico pastoso, sensuale, avvolgente. Ma nel volume di Busi e Greco troviamo anche la cronaca aristocratica, la vita vissuta, le alcove, gli intrecci, gli amori, i pettegolezzi, le lettere infuocate di passione e talvolta piccanti di Niccolò Machiavelli e Pietro Aretino, gli amori di Raffaello Sanzio e di Michelangelo Buonarroti, in un clima più aperto e libero che gioco forza finisce per riverberarsi anche sull’universo erudito ed ebraico del tempo.
È la partita rinascimentale tra anima e corpo quella di cui ci danno conto Busi e Greco, il match che si sta giocando tra intelletto d’amore e physis, tra spirito e materia. Amor sacro e amor profano non più antitetici ma ricongiunti, nel tentativo di superare la dicotomia tra corpo e spirito, tra amato e amante, senza più separazione tra bellezza divina e bellezza terrena: anche per Tullia d’Aragona e Leone Hebreo, corpo e anima vanno insieme, sono inscindibili, si fondono. «Per Tullia d’Aragona, come per Leone Hebreo, il fine è la compenetrazione tra corpo e spirito, che può portare anche a vette spirituali elevate ma non prescinde mai dalla corporeità degli amanti stessi», scrivono gli autori. Per comprendere la natura dell’amore, sia Tullia sia Leone distinguono tra “amor volgare e disonesto” e “amor onesto o virtuoso”, il primo è “passione che nasce dal mero desiderio di godere la cosa amata”, con lo scopo di avere piacere e procreare, ed è plebeo e vile. Il secondo appartiene agli uomini nobili di spirito, ricchi o poveri che siano, un amore generato dalla ragione e non dal desiderio, con lo scopo di instaurare una relazione tra amante e amato, un legame profondo, che possa trasformare entrambi, i due amanti che si incontrano su un piano paritario. Un’idea assolutamente rivoluzionaria, quasi qabbalistica, l’amore visto come trasformazione, occasione di mutamento profondo.
Leone, figlio di Don Isacco Abravanel
Ma chi erano Leone e Tullia d’Aragona? Figlio nientemeno che di Don Isacco Abravanel – il grande filosofo, banchiere e consigliere dei Re di Spagna-, divenuto celebre col nome di Leone Hebreo, Yehudà Abravanel era nato a Lisbona nel 1460 e riparato in Italia dopo la cacciata del 1492, aveva vissuto il resto della sua vita tra Napoli, Ferrara, Venezia e Barletta. La morte l’aveva colto a Napoli nel 1530 mentre esercitava la professione medica, già notissimo e celebrato anche come pensatore e poeta originale, erudito e studioso eccelso. E Tullia? Nata nel 1508 a Roma, è un concentrato di bellezza, sfarzo e raffinatezza, bersaglio dell’ostilità dei moralisti e idolatrata da principi, duchi e artisti. Filippo Strozzi e il cardinale Ippolito de’ Medici sono tra i frequentatori abituali del suo salotto e Tullia lotterà tutta la vita per scrollarsi di dosso lo stigma di cortigiana e per veder riconosciuto il suo ingegno, essere accettata, non più musa o ispiratrice ma lei stessa autrice capace di scrivere rime di pregio e dissertare filosoficamente.
Tullia d’Aragona si muove in quei territori di confine dove è più facile incontrare l’Altro, ossia i numerosi ebrei che ruotano intorno al mondo signorile, uomini fuori dal comune e spesso controcorrente, amanti delle belle lettere quanto frequentatori di corti, un universo ebraico spesso marginalizzato che non disdegna la filosofia e i versi, la musica e la danza, e che capita sovente di incontrare nei circoli neoplatonici di Marsilio Ficino e Lorenzo il Magnifico, come nel caso di pensatori come Iochanan Alemanno e Elisha del Medigo. Inoltre, non a caso, i più noti e talentuosi maestri di danza sono proprio gli ebrei, abituati per tradizione a celebrare numerose ricorrenze e festività, avvezzi alla gioia e al ballo come contrappasso dei momenti bui.
Il libro di Busi e Greco si addentra così in un gustoso e documentatissimo racconto della rivoluzione sensoriale del Cinquecento. Forme artistiche e modi di relazione che mutano radicalmente in un clima gaudente e più aperto che inizierà a dissertare di passioni e eros, in rotta di collisione col retaggio medievale e neoplatonico. Guardarsi, parlarsi, toccarsi, baciarsi, amarsi: i cinque sensi declinati con i verbi al riflessivo, una nuova consapevolezza emotiva e sentimentale che si fa strada, laddove mente e corpo non sono più sistematicamente recisi ma si cercano, si inseguono, si parlano, si specchiano. E poi, la sensualità che irrompe sulla tela, la dimensione della seduzione e l’arte del corteggiamento a cui vengono dedicati interi trattati d’amore da Baldassarre Castiglione a Enea Silvio Piccolomini a Francesco Colonna col suo meraviglioso Hypnerotomachia Poliphili, vero best seller del tempo.
Nelle pieghe del pensiero rinascimentale si fa largo un’idea di interezza e di unità di corpo e anima come mai si erano viste, amore fisico e spirituale fusi insieme, una idea anche debitrice dell’accoglienza che la sensibilità e il pensiero ebraico incontrano nelle corti italiane, o all’interesse per la Qabbalà ebraica da parte di umanisti come Pico della Mirandola.
Le donne entrano per la prima volta, in maniera impensabile, nel discorso pubblico. Il pensiero ebraico e i suoi eruditi vengono accolti con curiosità e meraviglia negli Orti medicei di Lorenzo a Firenze, a Mantova, Ferrara e nelle corti ducali. E poi l’idea della reciprocità amorosa, della bellezza impastata con le emozioni, di un’inquietudine emotiva che trafigge l’animo e la carne: tutte posture e concetti sdoganati dal nuovo sentire umanistico.
«I modelli amorosi del Rinascimento, i percorsi di seduzione, l’affinamento psicologico dei sentimenti messi a fuoco in Italia in quest’epoca inimitabile sono ancora dominanti oggi», spiegano Busi e Greco. «Si può parlare di una vera rivoluzione amorosa, di un risveglio dell’eros dopo il lungo sonno medievale. E noi moderni siamo tutti figli di tale rivalutazione della passione fisica come dimensione positiva».