di Anna Lesnevskaya
Il Ghetto di Venezia come una riproduzione in scala ridotta della città. Entrambi hanno uno spirito cosmopolita e sono caratterizzati da una rigida suddivisone degli spazi, il che non preclude, in fin dei conti, una commistione di culture e mondi diversi, dando vita ad un universo in cui ognuno ha la sua utilità nell’economia urbana. E’ questo che emerge dal libro di Donatella Calabi, Venezia e il Ghetto. Cinquecento anni del “recinto degli ebrei” (Bollati Boringhieri, Torino, 2016), che l’autrice – urbanista, storica di architettura e responsabile del comitato scientifico dei 500 anni del Ghetto – ha presentato nell’ambito della Festa del Libro Ebraico a Ferrara.
“Il mio punto di partenza è stato quello di ragionare sul termine ‘ghetto’ e su quello che sono i ghetti oggi, – spiega la Calabi. – Mi intriga moltissimo la storia del rapporto tra le minoranze e il resto della città”. Come possiamo scoprire nel libro, questo rapporto a Venezia era del tutto particolare. Intorno al 16esimo secolo Venezia accolse non solo gli ebrei, ma anche tedeschi, fiamminghi, turchi, armeni, albanesi, per non parlare di fiorentini, lucchesi e milanesi. “La Repubblica Veneta ha scelto una vera e propria strategia urbana di localizzazione all’interno della città di queste minoranze, offrendo loro degli insediamenti e con questo la garanzia di svolgere quel mestiere che era particolarmente utile alla Serenissima”, nota l’autrice.
Il Ghetto di Venezia è l’unico caso in Italia in cui fu deciso di collocare l’insediamento ebraico in una zona nuova della città, e non in un’area già popolata dagli ebrei. Inizialmente la Repubblica Veneta voleva che le tre nazioni degli ebrei veneziani – la nazione tedesca, levantina e ponentina – fossero relativamente separate come le rispettive aree del Ghetto Nuovo (il primo nucleo), Ghetto Vecchio e Ghetto Nuovissimo. Ma alla fine la ristrettezza degli spazi ha portato “quelle comunità diverse, che mangiavano diversamente e parlavano le lingue diverse”, a compiere invasioni di campo . “E’ questa la parte più fertile e interessante della vicenda”, dice la Calabi.
Infine, dopo l’emancipazione, possiamo parlare degli ebrei ‘de so’ e gli ebrei ‘de zo’. I primi rimangono nel Ghetto e mantengono l’attaccamento alle tradizioni, i secondi comprano i palazzi sul Canal Grande e si sostituiscono al patriziato veneziano, diventando una vera e propria élite cittadina e apportando un grande contributo alla modernizzazione della città.